Franco Battiato l'era del cinghiale bianco significato - Ig@franco.battiato_-fuorionline
Un viaggio mistico tra Oriente e Occidente, mito e pop: con L’era del cinghiale bianco, Franco Battiato ha trasformato la canzone in una parabola spirituale che ancora oggi ci invita alla rinascita dell’anima.
Il cinghiale bianco è una creatura sacra in molte tradizioni. Nella mitologia celtica rappresenta la saggezza spirituale e l’energia del rinnovamento; nell’induismo è una manifestazione del dio Vishnu che salva il mondo dal diluvio, e nelle leggende nordiche è simbolo di forza e purezza. Franco Battiato raccoglie questo immaginario millenario e lo reinterpreta come emblema di una rinascita dell’anima creando una canzone che alla faccia dei 46 anni dalla sua uscita, non invecchia, perchè non appartengono al tempo.
Un brano che non si lascia mai spiegare del tutto, come un sogno lucido o un frammento di visione mistica. Più che una canzone, è una parabola spirituale in forma pop, un viaggio tra i simboli dell’infanzia perduta dell’umanità, dove il cantautore siciliano fonde mito, filosofia e musica d’autore in un linguaggio poetico che ancora oggi sorprende per la sua profondità.
Tunisi, Damasco, un cinema e un bar: la memoria come soglia
Il testo si apre su un’immagine quasi cinematografica:
“Pieni gli alberghi a Tunisi / per le vacanze estive / a volte un temporale / non ci faceva uscire.”
La scena è nitida, quasi quotidiana. Ma dietro la semplicità dei versi, Battiato mette in scena un altrove geografico e mentale: il Mediterraneo, luogo di passaggio, crocevia di civiltà, ma anche simbolo di quell’incontro tra Occidente e Oriente che sarà una costante della sua poetica. Tunisi e Damasco non sono solo città reali: rappresentano i poli di una spiritualità antica, un oriente interiore che si oppone alla modernità distratta e consumista dell’Occidente.
“Un uomo di una certa età / mi offriva spesso sigarette turche, ma…”
C’è un’ironia lieve, quasi hitchcockiana, ma anche un senso di straniamento. Il soggetto lirico – un io osservante, forse lo stesso Battiato, forse una sua emanazione – attraversa la scena come un pellegrino fuori dal tempo, testimone di un mondo in dissoluzione. L’uso della prima persona è rarefatto: non serve per raccontare, ma per registrare sensazioni, profumi, visioni.
“Profumi indescrivibili / nell’aria della sera / studenti di Damasco / vestiti tutti uguali.”
In questi versi si percepisce la forza sinestetica della scrittura battiatesca: l’odore, il colore, la forma diventano veicoli di un’esperienza spirituale. Tutto è simbolo, ma mai ermetico. Il mondo si rivela nella sua superficie sensuale e al tempo stesso diventa metafora dell’anima: la ripetizione degli “studenti vestiti tutti uguali” può alludere all’omologazione della società contemporanea, ma anche alla perdita dell’identità profonda dell’essere umano.
“Spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco”: il mantra
Il ritornello è un’invocazione, quasi una preghiera:
“Spero che ritorni presto l’era / del cinghiale bianco.”
Ripetuta due volte, come un mantra. Non è un semplice ritornello pop: è una formula magica, un richiamo arcaico.
L’“era del cinghiale bianco” diventa qui simbolo di un’età mitica, perduta, in cui l’uomo era ancora in contatto con il divino, con la natura e con se stesso. Secondo quanto ricordato anche da Fabio Volo durante la diretta a Radio Deejay, il brano parla proprio di questo: di “un’età mitologica dell’evoluzione umana”, un momento in cui la conoscenza non era solo mentale, ma spirituale.
“È un’età mitologica e magica di quando raggiungi la conoscenza assoluta, nel senso spirituale. L’evoluzione, dal punto di vista tecnologico, avanza con una certa velocità. L’evoluzione spirituale, invece, è lentissima, tanto che la storia si ripete continuamente, come le guerre che si fanno sempre per gli stessi motivi. L’era del cinghiale bianco sarà il momento in cui tutti noi, su questo pianeta e nelle prossime vite, arriveremo ad un grado di consapevolezza così alto che invece di dire sempre ciò che pensiamo, con la mente, diremo ciò che sentiamo, con il cuore. Nelle nostre vite dobbiamo avere il cinghiale bianco come punto di arrivo.” Ha spiegato Volo
Per Battiato, che aveva attraversato negli anni Settanta il magma della sperimentazione elettronica e filosofica, questo ritorno alla forma canzone non significava resa, ma trasformazione. L’era del cinghiale bianco è il punto d’incontro tra l’avanguardia e il pop, tra l’esoterismo e la melodia italiana, tra il misticismo e la quotidianità. È come se, dopo aver sondato le profondità dell’ignoto, il cantautore avesse deciso di tradurre l’invisibile in linguaggio accessibile, ma senza tradirne la complessità.

Il simbolo del cinghiale bianco: purezza, autorità, rinascita
L’“era” che Franco Battiato invoca non è un tempo storico, ma uno stato dell’essere: il momento in cui l’uomo smetterà di vivere nella mente per tornare a sentire con il cuore, in sintonia con il cosmo. In questo senso, la canzone può essere letta come una parabola escatologica, una visione di “fine e inizio”, di morte dell’ego e resurrezione spirituale.
Non a caso, Battiato stesso dichiarò più volte di sentirsi vicino alle tradizioni mistiche orientali, dal sufismo al buddhismo, ma anche alla spiritualità cristiana. Il cinghiale bianco, allora, diventa un archetipo universale, capace di attraversare culture e religioni, incarnando l’anelito umano verso la trascendenza.
Sul piano musicale, L’era del cinghiale bianco segna un passaggio fondamentale nella carriera di Battiato. Dopo gli esperimenti elettronici e d’avanguardia di Fetus o Sulle corde di Aries, il cantautore approda a un pop intellettuale, denso di riferimenti ma straordinariamente orecchiabile.
La produzione, curata insieme a Giusto Pio, fonde suoni sintetici e strumenti acustici, creando un equilibrio quasi alchemico.
La voce di Battiato, controllata eppure vibrante, si muove su una linea melodica sospesa tra l’incanto e l’ironia, evocando un senso di distanza che è anche consapevolezza. L’arrangiamento, limpido e geometrico, rispecchia la sua ricerca di armonia interiore: la forma musicale diventa specchio della forma spirituale. Non è un caso che proprio da questo disco inizi quel percorso che porterà a capolavori come La voce del padrone e L’arca di Noè, dove il linguaggio di Battiato raggiunge la piena sintesi tra filosofia e leggerezza.
L’io diviso e la nostalgia dell’assoluto
Tra le righe, L’era del cinghiale bianco è anche una riflessione sull’identità.
“L’ombra della mia identità / mentre sedevo al cinema oppure in un bar.”
Questo verso, apparentemente secondario, è uno dei più profondi dell’intero brano. L’“ombra” è ciò che resta quando la luce interiore si spegne: è la coscienza di un io che si percepisce diviso, alienato, disperso tra i frammenti della modernità. Seduto al cinema o in un bar, il protagonista osserva il mondo senza più riconoscersi. È l’immagine dell’uomo contemporaneo, prigioniero della superficie, incapace di distinguere il reale dal riflesso.
Eppure, proprio da questa consapevolezza nasce la speranza: il desiderio del ritorno, dell’“era del cinghiale bianco”. Una nostalgia che non è regressione, ma tensione verso una purezza possibile. Battiato non propone un’utopia politica, ma una rivoluzione interiore: la libertà di riscoprire l’anima come luogo sacro, di vivere la materia come parte dello spirito.
Un lascito che parla ancora al presente
A più di quarant’anni dalla sua pubblicazione, L’era del cinghiale bianco continua a parlarci con una forza sorprendente.
In un mondo sempre più disincantato, dove la tecnologia corre ma la coscienza resta indietro, il messaggio di Battiato risuona come un richiamo urgente: non può esistere progresso senza evoluzione spirituale. La sua musica, spesso definita “mistica pop”, ci invita a riconciliare la mente con il cuore, l’individuo con il cosmo, la conoscenza con la compassione.
Il bianco, nella simbologia universale, non è assenza di colore, ma somma di tutti i colori. È il punto in cui le differenze si fondono in armonia, dove il dualismo si risolve nell’unità. Così anche L’era del cinghiale bianco è un invito a integrare, non a fuggire: a portare la luce nel caos, la spiritualità nella materia, la poesia nella vita quotidiana.
Franco Battiato, poeta del suono, ci ha lasciato un testamento in musica: l’idea che l’arte non serva solo a raccontare il mondo, ma a trasfiguralo. E mentre continuiamo ad ascoltare il suo canto, sospeso tra l’oriente e la Sicilia, tra il sacro e il pop, ci accorgiamo che la sua invocazione non ha perso intensità: “Spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco.” Forse quella speranza non è solo sua, ma di tutti noi.
Il testo
Pieni gli alberghi a Tunisi
Per le vacanze estive
A volte un temporale
Non ci faceva uscire
Un uomo di una certa età
Mi offriva spesso sigarette turche, ma
Spero che ritorni presto l’era
Del cinghiale bianco
Spero che ritorni presto l’era
Del cinghiale bianco
Profumi indescrivibili
Nell’aria della sera
Studenti di Damasco
Vestiti tutti uguali
L’ombra della mia identità
Mentre sedevo al cinema oppure in un bar
Ma spero che ritorni presto l’era
Del cinghiale bianco
Spero che ritorni presto l’era
Del cinghiale bianco
