COP30 Brasile-fuorionline
Mentre gli uragani devastano i Caraibi, le Nazioni Unite lanciano l’allarme: servono dodici volte più fondi per proteggere i paesi vulnerabili. Il vertice di Belem dovrà convincere il mondo che la lotta climatica non è finita
Il mondo si trova di fronte a una scelta cruciale: investire massicciamente per proteggere miliardi di persone dagli effetti devastanti del cambiamento climatico oppure assistere impotenti a una catena di disastri sempre più frequenti e violenti. Come si apprende da Reuters, il conto è salato: secondo le Nazioni Unite, entro il 2035 serviranno 310 miliardi di dollari ogni anno solo per misure di adattamento. Una cifra che fa girare la testa, ma che rappresenta l’unica ancora di salvezza per milioni di abitanti delle zone più vulnerabili del pianeta.
Per capire la portata di questo numero, basta un confronto: attualmente i paesi ricchi e le istituzioni internazionali destinano circa 26 miliardi di dollari all’anno per aiutare le nazioni in via di sviluppo ad adattarsi al clima che cambia. Significa che occorre moltiplicare per dodici gli investimenti attuali, un salto quantico che molti considerano irrealistico ma che gli esperti giudicano indispensabile. Non si tratta di capriccio ambientalista: mentre i diplomatici discutevano di queste cifre, la Giamaica veniva devastata da un uragano di categoria 5, con inondazioni apocalittiche, frane letali e blackout diffusi. Un promemoria brutale che il cambiamento climatico non aspetta i tempi della burocrazia internazionale.
Ma cosa significa esattamente “adattamento climatico“? Mentre la maggior parte delle persone associa la lotta al cambiamento climatico a pannelli solari, auto elettriche e riduzione delle emissioni, l’adattamento è l’altra faccia della medaglia, spesso trascurata. Parliamo di costruire dighe più alte per proteggere le città costiere dall’innalzamento dei mari, sviluppare sistemi di irrigazione efficienti per le zone colpite dalla siccità, rinforzare le infrastrutture per resistere a ondate di calore estremo, creare sistemi di allerta precoce per eventi meteorologici estremi. In sostanza, significa prepararsi a vivere in un mondo più caldo invece di limitarsi a sperare di fermarne il riscaldamento.
E’ tempo di cambiare “il metodo”
Il problema è che finora i riflettori sono stati puntati quasi esclusivamente sulla “mitigazione” – cioè ridurre le emissioni di gas serra – lasciando l’adattamento come un parente povero nella famiglia dei finanziamenti climatici. Una scelta comprensibile dal punto di vista simbolico, perché investire in adattamento può sembrare una resa, un’ammissione che abbiamo già perso la battaglia contro il cambiamento climatico. Ma è una visione pericolosamente miope: anche se domani smettessimo magicamente di emettere CO2, gli effetti del riscaldamento già in corso continueranno a manifestarsi per decenni.
È in questo contesto che il Brasile si prepara a ospitare la COP30, il trentesimo vertice mondiale sul clima, nella città di Belem, porta d’accesso all’Amazzonia, dal 10 al 21 novembre. Il presidente del vertice, André Correa do Lago, ha dichiarato che uno degli obiettivi principali sarà creare un “pacchetto di risorse” specificamente dedicato all’adattamento. Non solo soldi dai governi ricchi, ma anche contributi dalla filantropia privata e, soprattutto, un cambio di rotta delle banche multilaterali di sviluppo, che dovranno spostare il focus dei loro prestiti verso progetti di adattamento.
La tempistica non potrebbe essere più delicata. Gli Stati Uniti, tradizionalmente uno dei maggiori contributori (anche se spesso riluttanti) ai fondi climatici internazionali, stanno progressivamente ritirandosi dall’azione climatica. Per questo il Brasile vuole usare la COP30 per dimostrare al mondo che la partita non è ancora persa, che esistono ancora governi, città e organizzazioni determinati a combattere questa battaglia. Correa do Lago lo ha detto esplicitamente: l’opinione pubblica globale sta perdendo fiducia, pensa che il programma climatico stia naufragando. Servono segnali concreti, non solo belle parole.
Il precedente non è incoraggiante. Alla COP29 dello scorso anno, tenutasi a Baku in Azerbaigian, i paesi ricchi si sono impegnati a fornire 300 miliardi di dollari annui entro il 2035 per il clima – una cifra che comprende sia mitigazione che adattamento. L’accordo è stato accolto con rabbia e delusione dalle nazioni più povere, che lo hanno definito “palesemente inadeguato“. E avevano ragione: anche se tutti quei soldi fossero destinati solo all’adattamento (cosa che non avverrà), non basterebbero comunque a coprire i 310 miliardi necessari secondo l’ONU.

Proteggere la vita delle persone
Ma c’è un piano più ambizioso sul tavolo. Azerbaigian e Brasile stanno lavorando insieme a una “roadmap da Baku a Belem“, un percorso per arrivare a mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno attingendo a tutte le fonti possibili: governi, investitori privati, banche di sviluppo, fondi sovrani, filantropia. Una cifra che sembra fantascienza ma che, secondo alcuni economisti, è tecnicamente raggiungibile se si mettono in campo gli strumenti finanziari giusti, come garanzie pubbliche per attrarre investimenti privati o meccanismi innovativi di finanziamento basati su tasse internazionali.
Non è solo una questione di soldi, però. Il filantropo Bill Gates, intervenuto nel dibattito, ha invitato i leader mondiali a cambiare prospettiva: invece di ossessionarsi su obiettivi di temperatura e limiti di emissioni (per quanto importanti), dovrebbero concentrarsi su come migliorare e proteggere concretamente la vita delle persone. Un approccio pragmatico che potrebbe aiutare a sbloccare la situazione, spostando il focus da battaglie ideologiche a soluzioni tangibili.
Gli scienziati del clima sono chiari: le temperature degli oceani più elevate stanno già alimentando uragani più intensi e frequenti, con precipitazioni più abbondanti e rischi maggiori di mareggiate devastanti a causa dell’innalzamento del livello del mare. Non parliamo di scenari futuri, ma di realtà presente. Le piccole nazioni insulari come la Giamaica sono in prima linea in questa crisi, ma presto anche città costiere di paesi sviluppati – Miami, Venezia, Amsterdam – dovranno affrontare sfide simili.
In Brasile si cercheranno le azioni concrete
L’approccio che il Brasile vuole portare a Belem è diverso rispetto ai vertici precedenti. Meno tempo speso a negoziare ogni virgola di dichiarazioni diplomatiche che tutti i governi devono accettare, più attenzione su azioni concrete e garanzie finanziarie vincolanti. L’idea è di uscire dal vertice non con l’ennesimo documento di intenti, ma con impegni precisi, progetti finanziati, meccanismi operativi già avviati.
La sfida è titanica. Convincere i paesi ricchi ad aumentare drasticamente i contributi in un momento di difficoltà economica globale non sarà facile. Attirare capitali privati verso progetti di adattamento, che spesso hanno ritorni economici meno immediati rispetto agli investimenti in energie rinnovabili, richiederà creatività e incentivi intelligenti. E tutto questo mentre il consenso internazionale sull’azione climatica sembra incrinarsi.
Ma forse è proprio questo il momento di cambiare narrazione. L’adattamento climatico non è una sconfitta, è una necessità. Non significa rinunciare a ridurre le emissioni, ma riconoscere che dobbiamo combattere su due fronti contemporaneamente: rallentare il cambiamento climatico e proteggere chi ne subisce già le conseguenze. Le popolazioni delle zone costiere, i contadini colpiti dalla siccità, gli abitanti delle megalopoli soffocate dal caldo non possono aspettare che il mondo si metta d’accordo su target e percentuali. Hanno bisogno di aiuto adesso.
La COP30 di Belem potrebbe rappresentare un punto di svolta? O potrebbe essere l’ennesima occasione mancata, un vertice che produce annunci roboanti ma risultati scarsi? La differenza la farà la volontà politica dei governi di trasformare le promesse in realtà, e la pressione dell’opinione pubblica mondiale che chiede azioni concrete. Perché mentre i diplomatici discutono, il pianeta continua a riscaldarsi e le persone più vulnerabili continuano a pagare il prezzo più alto.
