A 50 anni dal film di Spielberg, il cinema rilegge i predatori marini: da simbolo di paura a specie da proteggere. Ma il vero orrore oggi è un oceano senza squali.
Nel giugno del 1975 usciva negli Stati Uniti Lo squalo di Steven Spielberg, il primo grande blockbuster dell’era moderna. Quel film cambiò radicalmente il modo in cui il pubblico percepiva il mare e i suoi abitanti. Da allora, lo squalo – e in particolare il grande squalo bianco – è diventato un simbolo universale di terrore. Ma a cinquant’anni di distanza, è tempo di fare i conti con le conseguenze reali che quella finzione ha avuto sulla fauna marina e sul nostro immaginario collettivo.

Concepito quasi per caso dal romanziere Peter Benchley e portato sul grande schermo tra mille difficoltà tecniche – lo squalo meccanico soprannominato “Bruce” funzionava così male da apparire pochissimo nel montaggio finale – il film puntò tutto sulla suspense e sulla paura invisibile. Una scelta stilistica che si rivelò geniale, ma che ebbe anche effetti collaterali imprevisti. Secondo Ross Williams, esperto del sito The Daily Jaws, il film trasformò la paura naturale in isteria collettiva, scatenando un’ondata globale di caccia agli squali.
I dati parlano chiaro: dopo il 1975, le popolazioni di squali in diverse aree oceaniche subirono crolli impressionanti. Tra il 1986 e il 2000, si registrò un calo dell’89% degli squali martello nell’Atlantico nordoccidentale. La pesca indiscriminata, spesso indirizzata a scopi commerciali o sportivi, ha portato alla morte di oltre 80 milioni di squali all’anno, 25 milioni dei quali appartenenti a specie a rischio estinzione.
Un film devastante per gli squali
Anche Spielberg, nel tempo, ha espresso rimorso per l’impatto del suo film. Lo stesso Benchley, negli anni successivi, si è dedicato con impegno alla conservazione marina. Fotografi e subacquei coinvolti nel progetto, come Ron e Valerie Taylor o Rodney Fox, hanno utilizzato la notorietà ottenuta per promuovere una maggiore comprensione del ruolo degli squali nell’ecosistema.

Negli ultimi anni, qualcosa sembra cambiare. Nuovi film come Something in the Water cercano di ritrarre gli squali per ciò che sono realmente: predatori essenziali all’equilibrio degli oceani, non mostri assetati di sangue. La regista Hayley Easton Street, ad esempio, ha dichiarato di aver voluto restituire agli squali la loro dignità di animali, mostrando la loro fame come un bisogno naturale, non un’aggressione premeditata.
Anche nel linguaggio comune gli squali hanno assunto un ruolo simbolico, come dimostrano espressioni come jump the shark o la viralissima canzone Baby Shark, che ha raggiunto i 15 miliardi di visualizzazioni su YouTube. Ma oggi la preoccupazione più urgente non è più quella di incontrare uno squalo durante una nuotata, bensì quella di vivere in un mondo che li ha sterminati.
Secondo lo zoologo Jules Howard, squali come il grande bianco sono creature complesse, intelligenti, adattabili. Non possiamo più ridurli a caricature cinematografiche. È tempo che il cinema restituisca ciò che ha tolto: comprensione, rispetto, protezione.