L’ottavo stop alla tassa sulle bevande zuccherate: analisi dell’impatto economico su consumatori e industria alimentare
Il governo italiano ha deciso di posticipare ancora una volta l’introduzione della Sugar Tax, spostandone l’entrata in vigore al luglio 2025. Questa decisione, che rappresenta l’ottavo rinvio consecutivo di una misura prevista inizialmente nella Legge di Bilancio 2020, ha significative implicazioni economiche sia per i consumatori che per l’industria alimentare nazionale.

La tassa, pensata sul modello di paesi come Francia e Regno Unito per scoraggiare il consumo di zuccheri, avrebbe comportato un aumento del 25% del prezzo delle bevande dolci al supermercato. Il meccanismo è semplice: 10 euro di imposta per ogni ettolitro di bibita già pronta e 25 centesimi per chilogrammo di prodotto concentrato da diluire.
Per una famiglia media, questo si tradurrebbe in circa 50-60 euro in più all’anno solo per l’acquisto di bevande analcoliche, un costo aggiuntivo che molte famiglie italiane farebbero fatica a sostenere in un periodo di alta inflazione. Il rinvio di sei mesi costa alle casse dello Stato circa 60 milioni di euro di mancate entrate, una cifra che evidenzia quanto sia complesso bilanciare obiettivi di salute pubblica e sostenibilità economica.
Possibili scenari futuri
L’analisi dell’esperienza spagnola offre uno spaccato interessante di cosa potrebbe accadere in Italia. Quando la Spagna ha aumentato l’IVA sulle bevande zuccherate dal 10% al 21% nel 2021, i risultati sono stati contrastanti: il consumo è calato del 13%, ma principalmente nelle famiglie a basso reddito, mentre i ceti più abbienti hanno continuato ad acquistare normalmente.
Questo dato solleva interrogativi sull’efficacia della misura come strumento di salute pubblica, poiché potrebbe creare disparità sociali nell’accesso a determinati prodotti senza raggiungere l’obiettivo sanitario desiderato. Dal punto di vista industriale, le preoccupazioni sono concrete: secondo le stime di Assobibe, l’implementazione della Sugar Tax metterebbe a rischio quasi 5.000 posti di lavoro, principalmente nelle piccole e medie imprese del Sud Italia.
L’industria alimentare italiana, già sotto pressione per l’aumento dei costi energetici e delle materie prime, teme una contrazione degli investimenti di 46 milioni di euro e una riduzione del fatturato del 10%. Il paradosso economico è evidente: mentre lo Stato incasserebbe circa 120 milioni annui dalla tassa, perderebbe simultaneamente 275 milioni di IVA a causa della riduzione delle vendite, creando un saldo negativo per le finanze pubbliche e un danno netto per l’economia nazionale.
Insomma, alla fine quanto davvero serve introdurre una simile tassa?