Dopo le tante critiche e pressioni, il leader dei Radiohead affronta pubblicamente il conflitto israelo-palestinese e denuncia le distorsioni del dibattito globale.
Dopo lunghi mesi di silenzio e attacchi pubblici, Thom Yorke ha deciso di esporsi. Lo ha fatto con un lungo messaggio pubblicato sui social, in cui affronta per la prima volta in modo sistematico la tragedia in corso in Medio Oriente. Il leader dei Radiohead, finito spesso nel mirino per non aver preso posizione chiara sul conflitto israelo-palestinese – e in particolare per i concerti della band in Israele – ha scelto parole nette, taglienti, che segnano un punto di svolta nella narrazione intorno al suo impegno politico e artistico.

Tutto nasce da un episodio traumatico: un fan, durante un concerto in Australia, lo ha contestato pubblicamente. Era il momento più intimo dello show, Yorke stava per esibirsi da solo. Quel grido, l’accusa di “complicità” per non aver parlato di Gaza, ha lasciato un segno profondo. Yorke lo racconta come uno spartiacque. “Quel silenzio era rispetto, non indifferenza”, spiega. Ma quel rispetto è stato letto come colpevole distanza, e ha dato spazio, dice, “a gruppi opportunisti che hanno usato intimidazioni e diffamazione”.
Le parole di Thom Yorke
Nelle sue parole emerge un’urgenza morale e politica. Yorke non fa sconti a nessuno. Da un lato accusa duramente il governo israeliano, in particolare il premier Benjamin Netanyahu e la sua “cricca di estremisti”, ritenuti responsabili di un’agenda di dominio e oppressione nei territori palestinesi. “Sono fuori controllo – scrive – e devono essere fermati. L’idea della legittima difesa ha perso ogni credibilità”.
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Ma Yorke non si ferma lì. Rivolge una critica altrettanto severa anche a Hamas, accusando l’organizzazione di usare il dolore del popolo palestinese per giustificare violenze e sequestri. E contesta lo slogan “Free Palestine” quando viene usato senza condizionamenti né interrogativi, soprattutto sull’assenza di risposte in merito agli ostaggi israeliani. “Anche Hamas si nasconde dietro la sofferenza, come fa il governo israeliano”, scrive, sottolineando l’ipocrisia e la manipolazione in atto da entrambe le parti.
Il cuore del suo intervento, però, è una riflessione più ampia sul ruolo degli artisti, sulla pressione crescente imposta dai social media, sulla polarizzazione che schiaccia il pensiero critico. “Essere costretti a schierarsi con slogan e hashtag – afferma – è parte del problema, non della soluzione. Non è dibattito, è un urlo nel buio”.
Il frontman britannico riconosce la difficoltà di prendere posizione in un panorama così carico di tensione, dolore e strumentalizzazioni. Ma al tempo stesso ribadisce la necessità di resistere alla tentazione delle semplificazioni, del “noi contro loro”, del giudizio rapido. “Solo quando gli estremisti saranno ricacciati nell’oscurità da cui sono emersi – conclude – potremo riscoprire ciò che ci unisce e tornare a una forma di umanità condivisa”.
In un mondo in cui le parole degli artisti vengono analizzate, distorte o richieste con urgenza, Thom Yorke sceglie di parlare tardi, ma con profondità. Non si sottrae più, ma invita a una riflessione che va oltre gli schieramenti, cercando luce nell’oscurità.