Prometteva software “come una pizza” grazie all’intelligenza artificiale, ma dietro c’erano solo sviluppatori sfruttati. Ora l’azienda è fallita con 115 milioni di debiti.
Nel mondo dell’intelligenza artificiale, dove l’innovazione corre molto veloce, la storia di Builder.ai rappresenta un monito per investitori e aziende, ma anche un’oscura attitudine che da sempre riguarda l’essere umano: lo sfruttamento. Nata con l’ambizioso obiettivo di democratizzare lo sviluppo software grazie all’IA, la startup londinese ha finito per crollare sotto il peso delle sue stesse promesse non mantenute. Il 20 maggio 2025, Builder.ai ha ufficialmente presentato istanza di fallimento: il sito è stato disattivato, i progetti sospesi, e i contatti ridotti a due semplici indirizzi email.

A prima vista, la parabola dell’azienda sembrava quella classica di una tech-star destinata al successo. Fondata nel 2016 da Sachin Dev Duggal, un imprenditore carismatico con un curriculum da enfant prodige dell’informatica, Builder.ai prometteva qualcosa di rivoluzionario: creare applicazioni in modo semplice e automatizzato, grazie a un sistema ibrido tra intelligenza artificiale e moduli software riutilizzabili. Una visione ambiziosa, in anticipo sui tempi, che ha fatto breccia nei cuori — e nei portafogli — di investitori di primo piano come Microsoft, Amazon, SoftBank e il fondo sovrano del Qatar.
Il punto di svolta arriva nel 2022, quando l’onda lunga del boom generato da ChatGPT spinge Builder.ai sotto i riflettori. L’azienda cavalca la retorica dell’IA con un’efficace narrazione commerciale, posizionandosi come pioniera dello “sviluppo software per tutti”. Grazie a questo slancio, tra il 2022 e il 2023 la startup raccoglie oltre 445 milioni di dollari, culminando in un round guidato dalla Qatar Investment Authority e accompagnato da un’importante partnership con Microsoft, che integra i servizi Builder.ai nel proprio ecosistema cloud.
La verità era un’altra
Tuttavia, dietro la vetrina brillante si nascondeva una realtà ben più opaca. Già nel 2019, un’inchiesta del Wall Street Journal sollevava dubbi sulla reale componente tecnologica della piattaforma. Secondo fonti interne, l’intelligenza artificiale pubblicizzata era poco più che un’interfaccia grafica, mentre il lavoro vero e proprio veniva eseguito manualmente da team di sviluppatori sottopagati in India. Nessun machine learning avanzato, nessun algoritmo generativo: solo tanto marketing.

A peggiorare la situazione, si sono aggiunti gravi problemi tecnici e gestionali. Codice non modificabile, ambienti di sviluppo inaccessibili e progetti incompiuti erano la norma. Le tensioni interne sono esplose nel 2024, quando Duggal è stato accusato di aver presentato ricavi gonfiati fino al 300% rispetto alla realtà operativa. La fiducia degli investitori è rapidamente evaporata.
Nel febbraio 2025, Duggal lascia il ruolo di CEO, mantenendo però una posizione nel consiglio con il curioso titolo di “Chief Wizard”. Al suo posto arriva Manpreet Ratia, ex manager di Amazon e Flipkart, incaricato di risanare la situazione. Ma il danno è ormai fatto: licenziamenti massicci (quasi un terzo della forza lavoro), liquidità residua ridotta a soli 5 milioni di dollari e debiti schiaccianti — 85 milioni con Amazon, 30 con Microsoft.
Infine, nelle scorse settimane, uno degli investitori principali ha sequestrato 37 milioni di dollari per violazioni contrattuali, lasciando l’azienda senza fondi operativi. Con l’istanza di fallimento del 20 maggio, la parabola di Builder.ai si conclude, lasciando dietro di sé una lezione per tutti: l’etichetta “IA” non può sostituire la sostanza.
In un’epoca dove ogni startup si affretta a etichettarsi come “AI-powered”, la vicenda di Builder.ai invita a uno sguardo più critico e concreto. Perché, come dimostra questa storia, non basta sbandierare l’intelligenza artificiale per essere davvero innovativi.