famiglia che vive nel bosco - fuorionline
Famiglia fugge dal sistema e vive nel bosco: ora rischiano di perdere i bambini. Cosa sta succedendo in provincia di Chieti.
Un’intossicazione da funghi ha portato alla luce una realtà che molti considerano (ancora) anacronistica se non del tutto stramba: una famiglia di cinque persone che vive completamente immersa nella natura, seguendo principi di autosufficienza e rifiutando molti degli standard della società moderna. L’episodio è avvenuto in una zona boschiva della provincia di Chieti, innescando un procedimento giudiziario che potrebbe cambiare radicalmente la vita di tre bambini e dei loro genitori.
Quando i soccorsi sono arrivati nella casa colonica dove risiede la famiglia, gli operatori si sono trovati di fronte a una situazione inaspettata: niente elettricità dalla rete tradizionale, assenza di acqua corrente, servizi igienici esterni e, particolare che ha allarmato le autorità, tre minori che non frequentano alcuna scuola pubblica o privata. Una scelta definita dai genitori come filosofica, che però ora rischia di costargli cara.
Partiamo subito nel dire che non sono stati riscontrate violenze fisiche o psicologiche nei confronti dei bambini e poi, cosa che interessa principalmente l’italiano medio gretto e ignorante, la famiglia in questione, non vive su nessun tipo di entrata di sussistenza statale. Per dirla breve, è riuscita sorprendentemente ad uscire dal nostro sistema tossico e occidentale che ci vuole ingabbiati tra asfalto e cemento a correre come cricetini impazziti. Un esempio di concreta applicazione anarchica. E che non è sicuramente l’unica.
I protagonisti del caso
Al centro della controversia ci sono Catherine Birmingham, 45 anni, ex istruttrice di equitazione australiana proveniente da Melbourne, e Nathan Trevallion, 51 anni, britannico con un passato da chef e commerciante di mobili pregiati. Due professionisti che hanno abbandonato carriere consolidate per abbracciare uno stile di vita completamente diverso, trasferendosi in Italia dopo aver viaggiato in numerosi paesi.
I loro tre figli – una bambina di otto anni e due gemelli di sei – sono cresciuti fin dalla nascita secondo questi principi. Non si tratta di una famiglia indigente o in difficoltà economiche: secondo il loro legale, sono “economicamente indipendenti” e non necessitano, come già accennato sopra, di alcun sussidio statale. La scelta del bosco non deriva da necessità, ma da una precisa visione del mondo. Tanto per cominciare hanno scelto il bosco come ambiente in cui vivere, quindi un luogo naturale, sano, lontano dalla civiltà avvelenata e impazzita in cui tutti boccheggiamo. Per i figli hanno inoltre optato per la “unschooling“.
Si tratta di un approccio educativo alternativo che prevede un apprendimento completamente libero, senza programmi prestabiliti, orari fissi o verifiche tradizionali. I bambini apprendono seguendo i propri interessi e curiosità, con i genitori nel ruolo di facilitatori piuttosto che di insegnanti. Nel caso specifico, secondo quanto riferito dalla difesa, i tre minori seguono lezioni domestiche settimanali con un’insegnante proveniente dal Molise. L’esposizione ai media è ridotta al minimo: un documentario a settimana visualizzato sul telefono dei genitori e videochiamate con i parenti in Australia rappresentano l’unico contatto con la tecnologia digitale. Niente televisione, niente tablet personali, niente social media. Cosa c’è di strano o malato in tutto ciò?
Ma ecco che questo modello educativo, sebbene praticato in diversi paesi del mondo, solleva interrogativi nell’ uomo-massa, colui che punta il dito, da prigioniero frustrato, nei confronti di chi è riuscito, senza nuocere dolore alcuno al prossimo, da quella stessa prigione in cui è rinchiuso e agonizzante, che si chiede : i bambini stanno davvero ricevendo un’istruzione adeguata? Saranno in grado di inserirsi nella società quando cresceranno? Ma la domanda che sarebbe da chiedere è: chi ha il diritto di decidere quale sia il percorso migliore per loro?
Le condizioni di vita della famiglia nel bosco
L’abitazione della famiglia presenta caratteristiche che agli occhi moderni possono sembrare primitive. Il primitivismo del resto, è una tendenza che esiste già da un pò di tempo: è una conseguenza fisiologica all’eccessiva industrializzazione e negli ultimi tempi inasprita dall‘overdose tecnologica che si è impossessata del nostro tempo e delle nostre menti. Non tutti sono disposti a sottostare a queste condizioni e se qualcuno ha il coraggio e le possibilità di sottrarsi da questa dittatura capitalista, perchè non farlo? Questa famiglia si è organizzata: l’energia elettrica arriva esclusivamente da pannelli solari, l’acqua viene attinta da un pozzo nel giardino, i servizi igienici sono collocati all’esterno dell’edificio principale. Per il riscaldamento viene utilizzato un camino tradizionale, lo stesso che veniva acceso dai precedenti proprietari della casa colonica.
Dopo il ricovero per l’intossicazione da funghi, i servizi sociali hanno effettuato accertamenti che per la società odierna risultano critici: mancanza di un pediatra di riferimento stabile, isolamento sociale rispetto alla comunità locale, e condizioni abitative giudicate non conformi agli standard minimi per la crescita di minori (su questo punto sarebbe interessante consultare i criteri di riferimento). Va sottolineato invece che i bambini risultano comunque iscritti al sistema sanitario nazionale e seguiti da una pediatra, come precisato dall’avvocato difensore.
La proposta dei servizi sociali prevedeva interventi minimi: documentazione sanitaria completa, un alloggio più adeguato e l’accesso a un centro educativo comunale. La famiglia ha però respinto queste richieste, ritenendole incompatibili con la propria filosofia di vita naturalistica. Ma questo rifiuto, come volevasi dimostrare, ha accelerato l’intervento della magistratura. Perché una famiglia non può vivere fuori dal sistema?

La battaglia legale in corso
La Procura minorile dell’Aquila ha chiesto misure drastiche: la sospensione della potestà genitoriale e l’affidamento dei tre bambini. Una decisione che spetta ora al Tribunale per i Minorenni, che dovrà bilanciare diversi fattori: il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, il diritto dei minori a ricevere un’educazione adeguata e a socializzare con i coetanei, e infine la tutela del loro benessere psicofisico.
L’avvocato Giovanni Angelucci, che difende la famiglia, ha sottolineato come non esistano evidenze di violenza, maltrattamenti o disagio nei bambini. Al contrario, secondo la difesa, i minori appaiono sereni e in perfette condizioni di salute. Il legale ha definito la situazione come “un caso per certi versi opposto” rispetto alle tante vicende di violenza domestica che purtroppo caratterizzano molte famiglie. Tuttavia, la questione rimane complessa. Anche in assenza di violenza fisica o psicologica evidente.
Il parere degli esperti: la scuola come diritto irrinunciabile
Maria Rita Parsi, nota psicopedagogista e psicoterapeuta, in un’intervista rilasciata a ilcentro ha espresso una posizione chiara sulla vicenda. Secondo l’esperta, la scuola rappresenta molto più di un semplice luogo di apprendimento nozionistico: è il secondo fondamentale agente educativo dopo la famiglia, dove i bambini imparano a relazionarsi con i pari e con figure di autorità diverse dai genitori.
“La scuola è il luogo dove ci si misura col diverso, con il proprio pari che non è della cerchia familiare”, ha spiegato Parsi. Anche la presenza di tre fratelli, che potrebbe sembrare una forma di socializzazione interna, non sostituisce secondo l’esperta l’esperienza della classe, dove si incontrano punti di vista, caratteri e background completamente differenti.
L’esperta ha però anche precisato che i genitori non vanno “criminalizzati“, ma piuttosto “accompagnati in un percorso condiviso” che li aiuti a comprendere l’importanza della scolarizzazione tradizionale. Allontanare i figli, secondo Parsi, sarebbe controproducente: “Bisogna pensare ad aggiungere cose in questa famiglia, non a sottrarle”. La vicenda intanto ha scatenato reazioni contrastanti nell’opinione pubblica, soprattutto sui social media. Una parte significativa degli utenti ha espresso sostegno alla famiglia, vedendo nella loro scelta un’alternativa coraggiosa a una società sempre più frenetica, tecnologica e alienante: un segnale importante perchè fotografa un malessere comune. Altri invece considerano irresponsabile privare i bambini di esperienze fondamentali per la loro crescita.
Anche la stessa Parsi, ha dichiarato che questo sostegno popolare nasce da un sentimento diffuso di “sconforto” verso il mondo contemporaneo. “Prima si credeva nel cambiamento e si lottava per ottenerlo. Oggi ci si sente impotenti, incapaci di incidere sulla realtà“, ha osservato l’esperta. Ritirarsi in un’isola personale diventa così una tentazione comprensibile, “anche se non necessariamente la risposta giusta.” La domanda che gli esperti si pongono è: fino a che punto il rifiuto della modernità rappresenta una forma di protezione per i figli, e quando invece diventa una limitazione delle loro opportunità future? I bambini cresciuti secondo questi principi avranno gli strumenti per scegliere autonomamente, da adulti, se continuare questo stile di vita o integrarsi pienamente nella società?
La risposta sarebbe da cercare proprio nel futuro che la società odierna, nello specifico, il capitalismo e i poteri forti ci stanno propinando. A questo punto la domanda sarebbe più corretta se fosse: è giusta lo stile di vita che ci attende domani? Che attende questi bambini?
Prospettive future e possibili scenari
Nelle prossime settimane il Tribunale dei Minorenni dell’Aquila dovrà prendere una decisione che farà da precedente per situazioni simili. Le opzioni sul tavolo vanno dall’allontanamento completo dei minori, a soluzioni intermedie che prevedano un monitoraggio costante della famiglia con obblighi specifici da rispettare, fino al rigetto delle richieste della Procura.
Indipendentemente dall’esito, questa vicenda pone interrogativi fondamentali sui limiti della libertà educativa, sul ruolo dello Stato nella tutela dei minori e sull’equilibrio tra diritti individuali e interessi collettivi. In un’epoca in cui il dibattito sull’educazione è sempre più polarizzato – tra chi chiede maggiore libertà per le famiglie e chi invece invoca standard più rigidi – il caso della famiglia del Vastese rappresenta un banco di prova significativo.
Una cosa appare certa: qualunque sia la decisione del tribunale, questa storia continuerà a far discutere, riflettendo tensioni profonde della nostra società tra tradizione e innovazione, natura e tecnologia, libertà individuale e responsabilità collettiva. I tre bambini al centro della vicenda meritano che ogni scelta venga presa pensando esclusivamente al loro benessere, presente e futuro.
