Trivelle Italia - fuorionline
Dopo anni di stop, il governo riapre alle esplorazioni. Shell ed Energean: “L’Italia ha il potenziale fossile più alto d’Europa.”
L’Italia si prepara a un cambio di rotta significativo nella politica energetica. La prima cosa che viene in mente è: finalmente! Possiamo incrementare la transizione energetica, salvaguardare l’ Ambiente e anche noi stessi! E invece no. Dopo anni di blocchi e moratorie, il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) ha dato il via libera a oltre trenta licenze di esplorazione per la ricerca di petrolio e gas naturale. Si tratta di autorizzazioni che erano rimaste congelate dal 2022 e che ora permetteranno alle compagnie energetiche di riprendere le attività di prospezione sia in mare che sulla terraferma.
La notizia segna un ritorno al passato, a quando il nostro Paese aveva scelto di fermare lo sviluppo del settore degli idrocarburi attraverso provvedimenti restrittivi. Ora, con questa decisione, si apre una nuova fase che coinvolgerà diverse regioni italiane e ampie porzioni dei nostri mari, riaccendendo il dibattito tra chi vede nelle risorse nazionali un’opportunità strategica (che puzza di vecchio, oltre ad essere devastante per molti in cambio di vantaggi per pochi) e chi (giustamente) teme impatti ambientali negativi.
Dal blocco alla ripartenza: cosa è successo
Per comprendere la portata di questa decisione, occorre fare un passo indietro. Nel 2019, l’Italia aveva introdotto una moratoria sulle trivellazioni, bloccando di fatto nuovi progetti di esplorazione e sfruttamento di giacimenti petroliferi e di gas. Questa scelta venne rafforzata nel febbraio 2022, in piena crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina, con l’approvazione del Pitesai (Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee), un documento che stabiliva quali zone del territorio nazionale potessero essere destinate all’estrazione di idrocarburi e quali no.
Il Pitesai rappresentava, sulla carta, uno strumento per bilanciare esigenze energetiche e tutela ambientale, ma nella pratica ha comportato il congelamento di decine di istanze presentate dalle compagnie. La situazione è cambiata in primavera, quando il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha annullato il Piano, aprendo così la strada alla riattivazione dei titoli minerari precedentemente bloccati. Le aziende del settore non si sono fatte attendere: hanno immediatamente presentato richiesta al ministero per sbloccare i permessi sospesi, ottenendo ora il tanto atteso via libera.

Dove si cercherà l’ oro nero
Le aree interessate dalle nuove esplorazioni coprono una porzione significativa del territorio italiano. Sulla terraferma, le ricerche riguarderanno cinque regioni: Basilicata, Lombardia, Emilia-Romagna, Puglia e Campania. Ognuna di queste zone presenta caratteristiche geologiche che potrebbero nascondere giacimenti sfruttabili commercialmente.
Per quanto riguarda i mari italiani, le attività esplorative si concentreranno in tre bacini principali: il Mar Adriatico, il Mar Ionio e il Canale di Sicilia. Sono aree strategiche dal punto di vista energetico, alcune delle quali già note per la presenza di depositi di idrocarburi ma mai pienamente esplorate o valorizzate. La distribuzione geografica così ampia dimostra come il potenziale del nostro sottosuolo e dei nostri fondali marini sia ritenuto consistente dagli operatori del settore.
Non sono solo le compagnie italiane a mostrarsi interessate. Due colossi internazionali dell’energia hanno dichiarato apertamente che l’Italia possiede il potenziale di risorse fossili più elevato dell’intero continente europeo. E non c’è da stare allegri. La britannica Shell e la greca Energean, già attive sul territorio nazionale, hanno espresso la volontà di incrementare gli investimenti e le attività estrattive.
Shell opera in Italia dal 2002 e detiene quote importanti nei due principali giacimenti terrestri d’Europa situati in Basilicata: Val d’Agri, dove possiede il 39% delle quote (il resto è di Eni), e Tempa Rossa, dove detiene il 25% insieme alla francese Total e alla giapponese Mitsui. Il vertice italiano della compagnia britannica ha dichiarato che l’azienda investe già circa 500 milioni di euro l’anno nel nostro Paese, ma sarebbe pronta ad aumentare le risorse a condizione che il quadro normativo diventi più chiaro e stabile.
Energean, quotata alla borsa di Londra, gestisce i campi petroliferi di Rospo e Vega tra l’Adriatico e il mare di Sicilia, oltre a essere partner di Eni nei giacimenti di gas Argo e Cassiopea al largo di Gela. L’amministratore delegato della società ha spiegato che con le nuove autorizzazioni potrebbero aprire tre pozzi aggiuntivi per il campo Vega, davanti a Pozzallo, e uno o due per Rospo. Secondo le stime aziendali, questi nuovi pozzi potrebbero triplicare la produzione sfruttando le infrastrutture già esistenti, riducendo così i costi e i tempi di avvio.
Il tesoro nascosto della Basilicata
La Basilicata rappresenta un caso emblematico. Questa regione del Sud Italia ospita giacimenti di grandissima rilevanza, tanto che Shell ha fatto sapere che nella zona si potrebbero aprire almeno altri dieci pozzi esplorativi. Si tratta di numeri significativi, che confermano come il territorio lucano contenga riserve ancora largamente inesplorate.
La presenza di infrastrutture già operative, costruite nel corso degli anni per gestire i giacimenti esistenti, rappresenta un vantaggio competitivo. Le condotte, gli impianti di trattamento e le strutture logistiche consentirebbero di ridurre drasticamente i costi e i tempi necessari per mettere in produzione nuovi pozzi, rendendo gli investimenti economicamente più attrattivi per le compagnie.
Energean ha anche richiesto licenze esplorative per il gas nel Mar Ionio, nelle acque al confine con la Grecia, dove la società possiede già permessi considerati promettenti. L’azienda ha fatto notare come altri Paesi mediterranei, in particolare Croazia e Grecia, stiano adottando politiche molto più favorevoli all’industria estrattiva, concedendo rapidamente autorizzazioni per nuove perforazioni.
L’Italia presenta infatti un paradosso: da un lato possiede risorse naturali significative, un sistema energetico maturo, un tessuto industriale competitivo e personale qualificato; dall’altro sconta tempi di autorizzazione lunghissimi che scoraggiano gli investimenti. Le compagnie chiedono da tempo un quadro regolatorio più snello e prevedibile, che consenta di pianificare gli investimenti con maggiore certezza.
Al momento da una parte c’è la necessità di ridurre la dipendenza energetica dall’estero, valorizzando le risorse nazionali; dall’altra occorre rispettare gli impegni ambientali e gestire le comprensibili preoccupazioni delle comunità locali, che sono contrarie all’apertura di nuove trivellazioni nei loro territori.
Gas nazionale per l’industria: la strategia del governo
Dietro la riapertura alle esplorazioni c’è ovviamente una strategia economica precisa. L’esecutivo sta cercando di aumentare la disponibilità di gas naturale di produzione italiana per ampliare il cosiddetto “gas release“, ovvero quel contingente di metano che viene ceduto alle industrie energivore a prezzi calmierati, inferiori a quelli di mercato.
Attualmente il governo dispone di circa mezzo miliardo di metri cubi di gas da destinare a questo scopo, una quantità limitata se paragonata alla produzione nazionale complessiva che si attesta intorno ai 3 miliardi di metri cubi annui. Aumentare l’estrazione domestica significherebbe avere maggiori margini per sostenere le imprese che consumano grandi quantità di energia, proteggendole dalla volatilità dei prezzi internazionali.
Si sta delineando quello che gli addetti ai lavori definiscono uno “scambio” tra governo e compagnie energetiche. L’ipotesi è questa: lo Stato garantirebbe procedure autorizzative più rapide e un contesto normativo più stabile; in cambio, le aziende si impegnerebbero a cedere una quota di gas estratto a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato, destinandola alle industrie nazionali che ne hanno più bisogno. Questo meccanismo permetterebbe di ottenere un doppio vantaggio: da un lato incentiverebbe gli investimenti privati nel settore, rendendo l’Italia più attrattiva per le compagnie petrolifere; dall’altro garantirebbe allo Stato uno strumento di politica industriale per proteggere i settori manifatturieri più esposti ai costi energetici.

Le resistenze e il dibattito politico
Non tutti, però, vedono con favore questa inversione di rotta. Le resistenze vengono soprattutto dalla politica locale e dalle associazioni ambientaliste, che temono l’impatto delle trivellazioni sui territori e sui mari. Regioni come l’Emilia-Romagna, la Puglia e la Campania hanno spesso manifestato perplessità verso nuovi progetti estrattivi, sottolineando i rischi per il turismo, la pesca e gli ecosistemi marini.
Il dibattito si inserisce nel più ampio confronto sulla transizione energetica. Da un lato c’è chi sostiene che, in una fase di passaggio verso le rinnovabili, sia ancora necessario sfruttare le fonti fossili nazionali per garantire sicurezza energetica e ridurre le importazioni; dall’altro chi ritiene che investire in nuove estrazioni sia un passo indietro rispetto agli obiettivi climatici europei e globali.
Sostanzialmente:
I maggiori beneficiari:
1. Le compagnie petrolifere (vincitori principali)
- Shell, Eni, Energean e gli altri operatori sono i vincitori più evidenti: potranno sfruttare giacimenti su cui avevano già investito in ricerche e per i quali erano rimasti bloccati per anni
- Hanno infrastrutture già esistenti (soprattutto in Basilicata), quindi i costi di avvio produzione saranno relativamente bassi rispetto ai ricavi potenziali
- Shell parla già di triplicare la produzione in alcuni siti – questo significa profitti molto consistenti
2. Le industrie energivore italiane
- Acciaierie, cementifici, vetrerie, ceramiche e altre fabbriche che consumano enormi quantità di gas potrebbero accedere al “gas release” a prezzi calmierati
- Questo le renderebbe più competitive rispetto ai concorrenti europei che pagano il gas a prezzo pieno di mercato
3. Il governo (in termini politici)
- Può presentarsi come garante della sicurezza energetica nazionale
- Avrà più gas da distribuire alle industrie, evitando chiusure di fabbriche per costi energetici insostenibili
- Riduce (anche se marginalmente) la dipendenza dall’estero
Chi ci guadagna meno o potrebbe perderci:
Le comunità locali e i territori interessati – Rischiano impatti ambientali, paesaggistici e sui settori come turismo e pesca, spesso senza benefici economici diretti proporzionati
I cittadini comuni – Non vedranno bollette più basse (il gas estratto andrà principalmente alle industrie a prezzi scontati, non alle famiglie)
In sintesi: il vantaggio maggiore va alle multinazionali dell’energia, che avranno accesso facilitato a risorse preziose con infrastrutture già ammortizzate. Un vantaggio significativo anche per le grandi industrie manifatturiere. Il beneficio per i cittadini e l’ambiente è molto più discutibile.
Nei prossimi mesi assisteremo all’avvio concreto delle attività esplorative, con le compagnie che inizieranno le ricerche nelle aree autorizzate. I risultati di queste indagini diranno se effettivamente il potenziale del sottosuolo italiano è così promettente come sostengono Shell ed Energean. Nel frattempo, il dibattito politico e sociale continuerà, con le comunità locali chiamate a esprimersi su un tema che tocca interessi economici, ambientali e identitari profondi.
