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Le Nazioni Unite confermano il fallimento dell’obiettivo climatico. Il pianeta si prepara a un riscaldamento che cambierà irreversibilmente gli equilibri ambientali
La comunità scientifica internazionale ha ufficializzato quello che molti esperti temevano da tempo: l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi sul clima non verrà raggiunto. Come si legge su Reuters, secondo il rapporto annuale Emissions Gap pubblicato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), il mondo supererà la soglia critica di 1,5 gradi Celsius di riscaldamento rispetto all’era preindustriale già nel corso del prossimo decennio. Non si tratta di un’ipotesi pessimistica, ma di una certezza basata sull’analisi delle politiche attuali e degli impegni concreti assunti dai governi di tutto il pianeta.
Cerchiamo di fare chiarezza andando a ritroso: nel 2015, durante la storica conferenza di Parigi, quasi tutti i paesi del mondo firmarono un accordo che stabiliva due obiettivi di temperatura: mantenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto” dei 2 gradi Celsius e compiere ogni sforzo possibile per limitarlo a 1,5 gradi. Questi numeri non erano casuali, ma rappresentavano le soglie oltre le quali gli scienziati prevedevano conseguenze ambientali sempre più gravi e irreversibili. La differenza tra 1,5 e 2 gradi può sembrare minima sulla carta, ma nella realtà si traduce in fenomeni drammatici: ondate di calore doppiate in frequenza e intensità, siccità prolungate, innalzamento del livello dei mari, perdita di biodiversità e stravolgimenti negli ecosistemi. Per fare un esempio concreto, con un riscaldamento di 1,5 gradi almeno il 70% delle barriere coralline del mondo sarebbe destinato a scomparire; con 2 gradi, questa percentuale salirebbe al 99%, decretando di fatto la fine di interi ecosistemi marini.
Il rapporto UNEP non lascia spazio a interpretazioni ottimistiche. Anne Olhoff, autrice principale dello studio, ha dichiarato in modo inequivocabile che “non possiamo più evitarlo del tutto“. Secondo le proiezioni più aggiornate, anche se tutti i governi manterranno fedelmente gli impegni di riduzione delle emissioni promessi per il futuro – un’ipotesi già di per sé ottimistica – il pianeta si avvia verso un riscaldamento compreso tra 2,3 e 2,5 gradi Celsius. Si tratta di un miglioramento rispetto alle previsioni dell’anno scorso, ma non abbastanza significativo da modificare la traiettoria complessiva. Particolarmente emblematico è il caso della Cina, il maggior emettitore mondiale di anidride carbonica, che a settembre ha annunciato un piano per ridurre le emissioni del 7-10% rispetto al picco previsto entro il 2035. Un obiettivo che, pur rappresentando un passo avanti, non è sufficiente a colmare il divario tra le intenzioni dichiarate e le azioni necessarie.

Basta con la combustione di carbone, petrolio e gas naturale
Ma cosa accadrà concretamente se non acceleriamo la transizione verso un’economia a basse emissioni? Lo scenario attuale – quello basato sulle politiche già implementate dai vari paesi – porta a un riscaldamento ancora più allarmante: circa 2,8 gradi Celsius. Un aumento di questa portata significherebbe trasformare radicalmente il clima che conosciamo, con conseguenze che vanno ben oltre le ondate di calore estive o gli eventi meteorologici estremi. Parliamo di cambiamenti sistemici che influenzeranno la produzione agricola, la disponibilità di acqua dolce, la vivibilità di intere regioni del pianeta e i flussi migratori. Le popolazioni più vulnerabili, spesso quelle che hanno contribuito meno al problema, saranno le prime a pagarne il prezzo. È importante sottolineare che l’umanità ha comunque fatto progressi: dieci anni fa, prima dell’Accordo di Parigi, eravamo sulla strada di un riscaldamento di 4 gradi Celsius. Abbiamo quindi dimezzato il problema, ma ciò non basta.
Il nodo cruciale è rappresentato dalle emissioni di gas serra, che invece di diminuire continuano ad aumentare. Nel 2024, secondo i dati UNEP, le emissioni globali sono cresciute del 2,3%, raggiungendo 57,7 gigatonnellate di CO2 equivalente. Per dare un’idea della scala del problema, una gigatonnellata equivale a un miliardo di tonnellate: stiamo quindi immettendo nell’atmosfera quasi 58 miliardi di tonnellate di gas che intrappolano il calore del sole, impedendogli di disperdersi nello spazio. La causa principale resta la combustione di carbone, petrolio e gas naturale per produrre energia, muovere i trasporti e sostenere i processi industriali. Finché i sistemi economici mondiali resteranno profondamente dipendenti dai combustibili fossili, sarà impossibile invertire la tendenza in modo significativo.
Il concetto di “superamento” (overshoot, in inglese) merita una spiegazione particolare. Quando gli scienziati affermano che supereremo temporaneamente la soglia di 1,5 gradi, non significa necessariamente che questa situazione sarà permanente. In teoria, attraverso riduzioni drastiche e rapide delle emissioni, combinate con tecnologie di rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, potremmo riportare le temperature al di sotto di questa soglia nel corso del secolo. Tuttavia, questo scenario richiede un’azione così intensa e coordinata da essere considerato altamente improbabile dagli esperti. Ogni anno di ritardo rende l’obiettivo più costoso, più difficile e più doloroso da raggiungere. Il rapporto UNEP sottolinea che per minimizzare la durata e l’intensità del superamento servirebbero “ulteriori riduzioni più rapide e consistenti” delle emissioni rispetto a quanto pianificato oggi.
Questi dati assumono un significato ancora più urgente alla vigilia della COP30, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà questo mese. Sarà un appuntamento cruciale dove i governi dovranno discutere non solo di obiettivi più ambiziosi, ma soprattutto di come finanziare concretamente la transizione ecologica, in particolare nei paesi in via di sviluppo che necessitano di supporto tecnologico ed economico per abbandonare i combustibili fossili senza compromettere la loro crescita. La domanda che domina il dibattito è: chi pagherà il conto della transizione? Le nazioni industrializzate, che hanno storicamente contribuito maggiormente alle emissioni, sono chiamate a sostenere finanziariamente i paesi più poveri, ma le trattative su cifre e meccanismi procedono con estrema lentezza.
Come sarà la vita quotidiana
Dal punto di vista pratico, cosa significa tutto questo per la vita quotidiana? Significa che le generazioni attuali e quelle future sperimenteranno un mondo climaticamente diverso da quello in cui sono cresciute le generazioni precedenti. Significa che fenomeni considerati eccezionali – come le temperature record dell’estate 2024 in Europa o gli incendi devastanti che hanno colpito diverse aree del Mediterraneo – diventeranno sempre più frequenti e intensi. Significa che dovremo adattarci, investendo massicciamente in infrastrutture resilienti, sistemi di allerta precoce, difese costiere e nuove pratiche agricole. Ma significa anche che abbiamo ancora margini per evitare gli scenari peggiori: la differenza tra 2,5 e 2,8 gradi può sembrare minima, ma rappresenta milioni di persone in meno esposte a rischi catastrofici.
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La scienza del clima ci ha dato strumenti precisi per comprendere dove siamo diretti. Ora la palla passa alla politica e all’economia. Ogni tonnellata di CO2 non emessa oggi è un investimento per il futuro, ogni politica energetica che favorisce le rinnovabili rispetto ai fossili è un passo verso la stabilizzazione del clima. Il superamento della soglia di 1,5 gradi non è la fine del mondo, ma è certamente la fine del mondo come lo abbiamo conosciuto. La domanda non è più se cambieremo, ma quanto rapidamente e quanto dolorosamente. E su questo abbiamo ancora voce in capitolo.
