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Nessun accordo a Ginevra sul trattato mondiale contro la plastica. Un fallimento che svela la crisi profonda della governance ambientale globale.
Agosto 2025, Ginevra. Dopo il quinto round di negoziati per creare un trattato mondiale contro l’inquinamento da plastica, i delegati di decine di paesi tornano a casa a mani vuote. Nessun accordo, nessuna bozza definitiva, nessun impegno concreto. Il presidente del comitato chiude i lavori senza stabilire nuove date per proseguire le discussioni. Un fallimento completo che, però, non sorprende più nessuno.
Questa débâcle svizzera rappresenta qualcosa di molto più profondo di una semplice battuta d’arresto diplomatica. È l’ennesima dimostrazione che il sistema globale di governance ambientale si trova in uno stato critico, quasi terminale. Gli studiosi che analizzano questi meccanismi hanno coniato un termine preciso per descrivere questa condizione: “paralisi istituzionale“. In pratica, le organizzazioni internazionali continuano a tenere riunioni, produrre documenti, organizzare conferenze e summit, ma tutto questo movimento frenetico non porta a risultati concreti. È come correre su un tapis roulant: tanta fatica, zero spostamento.
Il problema centrale risiede nel metodo decisionale che queste istituzioni utilizzano: il consenso unanime. Quando tutti i paesi devono essere d’accordo su ogni singola virgola di un trattato, il risultato finale diventa inevitabilmente il “minimo comune denominatore“. Si arriva cioè a compromessi così annacquati da risultare inefficaci. Si affrontano i sintomi superficiali dei problemi ambientali, mai le cause profonde. È come cercare di spegnere un incendio usando un cucchiaino d’acqua: tecnicamente stai facendo qualcosa, ma l’impatto è nullo.
Possibili soluzioni al cambiamento climatico?
Prendiamo la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, l’accordo internazionale che dovrebbe guidare la lotta contro il riscaldamento globale. Tutti riconoscono l’urgenza della crisi climatica, eppure anche se tutti i paesi rispettassero completamente gli impegni presi finora – cosa che già di per sé non sta accadendo – non sarebbe comunque sufficiente per evitare cambiamenti climatici pericolosi. Il sistema è progettato in modo tale da garantire che nessuno faccia troppo sforzo, piuttosto che assicurare che tutti facciano abbastanza.

La stessa dinamica si ripete con la Convenzione sulla Diversità Biologica, che stabilisce obiettivi ambiziosi per proteggere la natura attraverso aree protette. Sulla carta sembra tutto splendido: percentuali crescenti di territorio salvaguardato, piani strategici dettagliati, conferenze regolari per monitorare i progressi. Nella realtà, l’espansione di queste zone protette offre una difesa molto limitata contro l’estinzione accelerata delle specie causata proprio dai cambiamenti climatici. È come costruire muri sempre più alti attorno a una città mentre il livello del mare continua a salire: prima o poi l’acqua entrerà comunque.
Questa inefficacia strutturale crea un circolo vizioso pericoloso. Le istituzioni ambientali internazionali si trovano come cervi abbagliati dai fari di un’auto: perfettamente consapevoli del pericolo imminente, ma completamente paralizzati, incapaci di muoversi in modo efficace. E invece di ammettere questa paralisi e cercare soluzioni radicali, la maggior parte di queste organizzazioni ricorre a gesti simbolici per mantenere un’apparenza di rilevanza.
Un esempio emblematico è arrivato lo scorso luglio in Zimbabwe, durante l’incontro della Convenzione di Ramsar sulle zone umide. Dopo mesi di discussioni intense, l’accordo raggiunto consisteva sostanzialmente nel ribadire decisioni già prese vent’anni prima. Nessuna innovazione, nessun nuovo approccio, solo la ripetizione di vecchie promesse mai davvero mantenute. È il perfetto esempio di “azione senza impatto”: tanto rumore procedurale, zero sostanza reale.
Altri organismi internazionali scelgono una strada ancora più rischiosa: aprono le porte a soluzioni tecnologiche controverse pur di sembrare attivi. La Convenzione di Londra sul controllo dell’inquinamento marino, ad esempio, ha iniziato a considerare tecniche di geoingegneria oceanica, come la fertilizzazione degli oceani con ferro o l’aumento dell’alcalinità dell’acqua marina per assorbire più anidride carbonica. Queste tecnologie comportano rischi enormi e chiaramente identificati per gli ecosistemi marini, ma vengono comunque presentate come possibili soluzioni al cambiamento climatico. In pratica, pur di non affrontare le cause del problema, si rischia di danneggiare ulteriormente ciò che si dovrebbe proteggere.
Le radici profonde della paralisi
Per comprendere come siamo arrivati a questo punto, bisogna analizzare le cause strutturali che intrappolano queste istituzioni in uno stato di inefficacia cronica. La paralisi istituzionale non nasce dal nulla: è il risultato di problemi di progettazione che si sono accumulati nel tempo.
- Primo elemento: il divario tra mandato e realtà. Molte di queste convenzioni sono state create decenni fa, quando la comprensione scientifica dei problemi ambientali era diversa e meno completa. La Convenzione sul Clima, ad esempio, fu adottata nel 1992. All’epoca, le previsioni scientifiche erano molto meno precise di oggi e l’urgenza percepita era minore. Oggi la situazione climatica è drammaticamente peggiore di quanto si immaginasse trent’anni fa, ma l’istituzione che dovrebbe gestire le risposte è rimasta sostanzialmente la stessa, con gli stessi limiti strutturali.
- Secondo elemento: il sovraccarico di informazioni. La scienza ambientale ha fatto progressi enormi. Oggi abbiamo montagne di dati, studi, proiezioni, modelli computerizzati sempre più sofisticati. Gruppi di scienziati lanciano regolarmente “avvisi all’umanità”, documentando con precisione crescente l’accelerazione della crisi ecologica. Ma questa abbondanza di conoscenza, paradossalmente, contribuisce alla paralisi. Le istituzioni sono sovraccariche, non riescono a processare e tradurre in azione politica tutta questa informazione scientifica. Gli avvertimenti, dopo una breve attenzione mediatica iniziale, finiscono per essere ignorati.
- Terzo elemento: l’espansione incontrollata dell’agenda. Lo studio del cambiamento climatico, ad esempio, non coinvolge più solo le scienze naturali, ma sempre più anche le scienze sociali. Si parla di giustizia climatica, di equità intergenerazionale, di responsabilità storiche differenziate. Tutte questioni legittime e importanti, ma che allargano ulteriormente un’agenda già sovraffollata. E poiché molti di questi nuovi problemi sono conseguenze dell’inefficacia passata nell’affrontare il riscaldamento globale, si crea un effetto valanga: l’incapacità di risolvere i problemi genera nuovi problemi, mentre le risorse disponibili rimangono stagnanti.
- Quarto elemento: lo sconfinamento dei mandati. Molte istituzioni ambientali si trovano oggi a dover affrontare minacce che esulano completamente dalla loro autorità originale. La Convenzione del Patrimonio Mondiale, ad esempio, include 51 siti marini nelle sue aree protette, tra cui 29 barriere coralline. Sembra ottimo sulla carta. Il problema? Questa convenzione non ha alcuna autorità per affrontare le minacce climatiche che stanno distruggendo quelle stesse barriere coralline: il riscaldamento degli oceani, l’acidificazione dell’acqua marina. Può proteggere un sito dalla pesca eccessiva o dall’inquinamento locale, ma non può fare nulla contro le cause globali della sua distruzione.
- Quinto elemento cruciale: il sottofinanziamento cronico. La maggior parte delle istituzioni ambientali internazionali opera con budget ridicolmente inadeguati rispetto alla portata dei problemi che dovrebbe affrontare. E all’interno di questo panorama già scarso, il cambiamento climatico tende a ricevere la maggior parte dei fondi disponibili perché è politicamente più visibile, mentre la biodiversità rimane il parente povero. Il Fondo Cali, lanciato con grande entusiasmo a febbraio 2025 per sostenere la condivisione equa delle risorse genetiche, sta già facendo fatica a raggiungere i suoi obiettivi di raccolta fondi.
- Sesto elemento: le dinamiche geopolitiche. Le grandi potenze – Stati Uniti, Cina, Russia, Unione Europea – hanno un’influenza sproporzionata sugli esiti dei negoziati multilaterali. Alcuni paesi, specialmente quelli le cui economie dipendono fortemente dai combustibili fossili, agiscono deliberatamente come freni, ostacolando qualsiasi accordo ambizioso che potrebbe danneggiare i loro interessi economici. La contesa tra nazioni con situazioni socio-economiche e politiche radicalmente diverse paralizza ulteriormente i processi decisionali.
Infine, c’è un elemento psicologico e politico: nessuno vuole ammettere il fallimento. Queste istituzioni rappresentano decenni di sforzi diplomatici, investimenti politici, speranze collettive. Chiuderle o ammettere apertamente la loro inefficacia viene percepito come un rischio troppo elevato, sia politicamente che psicologicamente. È più facile continuare a fingere che funzionino, organizzare l’ennesima conferenza, produrre l’ennesimo rapporto, mantenere viva l’illusione del progresso.
Molte di queste organizzazioni, inoltre, sono radicate in quello che gli esperti chiamano “paradigma ecomodernista”: la convinzione che la tecnologia possa risolvere i problemi ambientali senza richiedere cambiamenti profondi nei nostri sistemi economici e nei nostri stili di vita. Questa visione spinge a privilegiare soluzioni tecnologiche come la cattura e lo stoccaggio del carbonio o le piantagioni massive di monocolture forestali. Ma queste “soluzioni” spesso creano nuovi problemi: le monocolture danneggiano la biodiversità, le tecnologie di cattura del carbonio richiedono enormi quantità di energia, e così via.
La via d’uscita: un nuovo approccio alla governance ambientale
Di fronte a questo quadro desolante, la tentazione potrebbe essere quella di arrendersi al cinismo. Ma esiste una proposta concreta per uscire dalla paralisi: creare un processo permanente di valutazione critica dei trattati ambientali globali. Non si tratterebbe di un’altra organizzazione che produce documenti destinati a finire in un cassetto, ma di un meccanismo indipendente, affidato ai governi, con il compito specifico di valutare se queste istituzioni funzionano o no. Questo organismo avrebbe tre funzioni principali. Primo: valutare l’idoneità di ciascun trattato ambientale, sia individualmente che nel loro insieme, considerando se sono ancora adatti ad affrontare i problemi del ventunesimo secolo. Secondo: identificare con precisione cosa funziona e cosa non funziona, e soprattutto perché. Non basta dire “non funziona”, bisogna capire i meccanismi specifici del fallimento. Terzo: fornire raccomandazioni concrete alle Nazioni Unite per riformare queste istituzioni.

L’idea chiave è spostare il focus dalla semplice attività procedurale (quante riunioni abbiamo fatto, quanti documenti abbiamo prodotto) all’impatto reale (stiamo davvero riducendo le emissioni, stiamo davvero proteggendo la biodiversità?). Troppo spesso, nelle attuali istituzioni ambientali, il successo viene misurato in termini di processo piuttosto che di risultato. Si considera un successo il fatto di aver raggiunto un accordo, indipendentemente da quanto quest’accordo sia effettivamente ambizioso o efficace. Questo nuovo approccio richiederebbe anche un uso molto più strategico della ricerca scientifica. Non si tratta di produrre ancora più studi – ne abbiamo già a sufficienza – ma di costruire ponti più efficaci tra il mondo della ricerca e quello della governance politica. Le istituzioni devono essere capaci di tradurre rapidamente le conoscenze scientifiche in azioni politiche concrete. Attualmente, questo passaggio è troppo lento e troppo filtrato da considerazioni politiche di breve termine.
Un altro elemento fondamentale sarebbe l’introduzione di meccanismi decisionali alternativi al consenso unanime. Esistono modelli diversi: maggioranze qualificate, voto ponderato in base alle responsabilità storiche nelle emissioni, coalizioni dei più ambiziosi che procedono indipendentemente. L’importante è abbandonare il principio per cui il paese meno ambizioso determina il livello di azione di tutti gli altri. Naturalmente, implementare riforme così profonde sarà difficilissimo. Richiederà una volontà politica che al momento sembra assente. Ma il fallimento del trattato sulla plastica a Ginevra, l’ennesimo di una lunga serie, dovrebbe servire da campanello d’allarme. Non possiamo più permetterci di fingere che il sistema attuale funzioni. Non possiamo più permetterci di partecipare a conferenze internazionali che producono comunicati stampa anziché cambiamenti reali.
Il tempo per gli aggiustamenti incrementali è scaduto da un pezzo. La crisi climatica ed ecologica avanza a una velocità che rende obsoleti gli approcci tradizionali alla diplomazia ambientale. Servono istituzioni che siano capaci non solo di riconoscere l’urgenza, ma di tradurla in azione rapida ed efficace. Istituzioni che possano dire “no, questo non sta funzionando” e avere il coraggio di cambiare rotta drasticamente. La paralisi istituzionale non è una condanna inevitabile. È una scelta, consapevole o meno, di privilegiare la stabilità apparente rispetto al cambiamento necessario. Ma in un pianeta che si sta rapidamente destabilizzando, questa illusione di stabilità sta diventando il rischio più grande di tutti. È ora di svegliarsi, di riconoscere la paralisi per quello che è, e di avere il coraggio politico di riformare profondamente un sistema che non funziona più.
