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Come ogni scelta al banco del pesce influenza il futuro degli oceani e quali specie portare in tavola senza sensi di colpa
Quando acquistiamo pesce fresco o il tonno al supermercato, raramente pensiamo alle conseguenze che quella scelta comporta per gli ecosistemi marini. Eppure, dietro ogni filetto o scatoletta si nasconde una storia che può fare la differenza tra la conservazione della biodiversità marina e il collasso di intere specie. Come fa sapere Altroconsumo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, nel 2022 abbiamo consumato globalmente 165 milioni di tonnellate di pesce, con una media individuale più che raddoppiata rispetto agli anni Sessanta. Questo appetito crescente ha un prezzo salato: oltre un terzo delle popolazioni ittiche mondiali è oggi sovrasfruttato, e nel Mediterraneo la situazione è ancora più critica, con appena il 37,5% degli stock pescati in modo sostenibile.
Ma cosa significa esattamente “pesca sostenibile” e come possiamo contribuire, nel nostro piccolo, a invertire questa tendenza? La risposta non è semplice come sembra, perché dipende da una combinazione di fattori che vanno dalla specie scelta al metodo di cattura, dalla provenienza geografica alla stagionalità. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il pesce non è una risorsa infinita che si rigenera automaticamente: quando la pesca supera la capacità riproduttiva di una specie, si innesca un circolo vizioso che porta al progressivo esaurimento delle risorse ittiche. Ed è proprio qui che entrano in gioco le nostre decisioni quotidiane al momento dell’acquisto.
Le specie sono a rischio di estinzione
Partiamo dalle specie. Sulle tavole italiane arrivano abitualmente non più di dieci o quindici varietà di pesce, quando in realtà le possibilità sarebbero molto più ampie. Il problema è che quelle che preferiamo – tonno rosso, pesce spada, salmone – sono spesso le più vulnerabili. I pesci di grandi dimensioni, infatti, crescono lentamente e raggiungono la maturità sessuale in età avanzata, risultando particolarmente esposti al rischio di sovrasfruttamento. Cernie, squali, verdesche e tonni rossi impiegano anni prima di poter riprodursi, e la pesca intensiva non lascia loro il tempo necessario. Per orientarci meglio, esistono strumenti preziosi come la “lista rossa” dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, che classifica le specie a rischio estinzione, o il sistema a semaforo del WWF, che attribuisce colori diversi in base al livello di rischio: verde per le specie da privilegiare, rosso per quelle da evitare assolutamente.

Ma la specie è solo il primo tassello del puzzle. Il metodo di pesca conta altrettanto, se non di più. Alcuni sistemi sono devastanti per l’ambiente marino: i dispositivi aggreganti (FAD), ad esempio, sono piattaforme galleggianti che attraggono i tonni per catturarli in massa con enormi reti, ma nella rete finiscono anche delfini, tartarughe, squali e tonni giovani. Allo stesso modo, i palamiti – cavi di nylon lunghi anche 100 chilometri con migliaia di ami – catturano indiscriminatamente specie protette e uccelli marini. Per fortuna esistono alternative più rispettose: la pesca artigianale, la canna, le reti a circuizione su banchi liberi sono metodi selettivi che riducono le catture accidentali e preservano i fondali. L’etichetta del pesce deve obbligatoriamente indicare il metodo di cattura utilizzato: controllare questa informazione è un gesto semplice ma potente per orientare il mercato verso pratiche più sostenibili.
Anche la stagionalità gioca un ruolo cruciale, sebbene molti non la considerino. Come frutta e verdura, anche il pesce segue cicli naturali legati alla riproduzione. Pescare durante la fase riproduttiva significa impedire il ricambio generazionale, aggravando il rischio di estinzione. Eppure, come dimostrano indagini sul campo, nei mercati italiani si vendono regolarmente pesci sottotaglia in violazione delle normative europee. Per sapere quale specie acquistare in ogni periodo dell’anno, è utile consultare il calendario del progetto HelloFish, promosso dal Ministero dell’Agricoltura, che indica quando comprare orate, ombrine, pagelli o crostacei rispettando i loro cicli biologici. Mentre alcune specie come le aringhe e le cozze sono disponibili tutto l’anno, altre andrebbero consumate solo in determinati mesi: l’ombrina in autunno, il pagello in primavera, l’aragosta tra marzo e giugno.
Da dove arriva il pesce che mangiamo? L’allevamento è la soluzione?
La provenienza geografica è un altro elemento determinante. Quasi il 90% del pesce mondiale proviene da appena dieci Paesi, una concentrazione che favorisce il sovrasfruttamento e che spesso avviene in zone prive di normative protettive adeguate. Scegliere pesce del Mediterraneo (identificato come Zona FAO 37 sulle etichette) non solo riduce le emissioni di CO₂ legate al trasporto, ma sostiene anche un sistema di regole più stringenti per la tutela della biodiversità. Purtroppo, per i prodotti trasformati come il tonno in scatola, recuperare l’origine è più complicato: le informazioni, quando presenti, sono spesso microscopiche e nascoste vicino al numero di lotto.
L’acquacoltura rappresenta un’alternativa alla pesca tradizionale che sta crescendo rapidamente: nel 2022 ha già superato la pesca in termini di produzione globale. Allevare pesci e molluschi permette di alleggerire la pressione sugli stock naturali ed evitare metodi di cattura invasivi. Tuttavia, non tutta l’acquacoltura è ugualmente virtuosa. Gli allevamenti intensivi possono causare problemi seri: uso massiccio di antibiotici e antiparassitari, inquinamento dei fondali con feci e residui, rischio di fuga di esemplari che alterano gli ecosistemi locali e impoveriscono geneticamente le popolazioni selvatiche. Per questo è fondamentale affidarsi a certificazioni riconosciute come ASC, Friend of the Sea o il marchio biologico europeo, che garantiscono standard di sostenibilità elevati.
Quali pesci dovremmo dunque privilegiare? Le alternative sostenibili esistono e sono spesso specie meno conosciute e di taglia inferiore rispetto ai classici salmone o pesce spada. Alalunga, tombarello, biso, tonnetto e alletterato striato sono ottime scelte per chi vuole ridurre il proprio impatto ambientale. Anche alcune specie di allevamento come il pagro, il pesce gatto e l’ombrina, se certificate, rappresentano opzioni valide. Riscoprire le “specie dimenticate” – come lo zerro, il suro o il sugarello – non solo arricchisce la nostra dieta di sapori nuovi, ma aiuta concretamente a preservare la biodiversità e favorire la rigenerazione degli stock ittici sotto pressione.
Pesci da evitare
Al contrario, ci sono pesci che dovremmo decisamente evitare. La lista rossa dell’IUCN e HelloFish concordano su diverse specie critiche: l’anguilla è in pericolo critico di estinzione, seguita da cernia, rombo chiodato e palombo. Anche specie apparentemente comuni come nasello, pesce spada, tonno rosso e sgombro sono classificate tra quelle quasi minacciate o vulnerabili. Il WWF, con il suo sistema a semaforo, indica in rosso permanente gambero grigio, triglia di fango e verdesca. Per altre specie, come la spigola (o branzino), tutto dipende dal contesto: va evitata se pescata nel Mediterraneo con reti da posta o a strascico, consumata con moderazione se proviene dall’Atlantico settentrionale con palangaro, privilegiata se pescata nel Golfo di Biscaglia con lenza o canna.
Le certificazioni di sostenibilità – MSC per la pesca, ASC per l’acquacoltura, Friend of the Sea, Dolphin Safe per la protezione dei delfini durante la pesca del tonno, e il biologico europeo – sono strumenti volontari ma preziosi per orientare le nostre scelte. Cercare questi marchi sulle confezioni è un modo concreto per premiare le aziende che investono in pratiche responsabili e spingere il mercato verso standard più elevati.

Più consapevolezza, più trasparenza
Ma oltre alle scelte individuali, serve un cambiamento sistemico. I consumatori hanno bisogno di maggiore informazione e trasparenza: etichette più chiare, una fonte unica e ufficiale facilmente consultabile con indicazioni aggiornate su specie, metodi di pesca, certificazioni. Le informazioni esistono, ma sono frammentate tra diversi portali, organizzazioni, marchi, rendendo difficile per chi non è esperto orientarsi nella giungla delle opzioni disponibili. Dall’altro lato, noi consumatori dobbiamo fare la nostra parte: informarci, leggere le etichette con attenzione, scegliere consapevolmente anche quando costa qualche minuto in più davanti al banco del pesce.
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Il pesce rimane un pilastro di una dieta equilibrata e salutare, ricco di proteine nobili, omega-3 e minerali preziosi. Ma continuare a consumarlo senza riflettere sulle conseguenze significa contribuire al degrado irreversibile degli ecosistemi marini. Ogni acquisto è un voto che diamo al tipo di pesca che vogliamo sostenere: possiamo scegliere di alimentare pratiche distruttive oppure di premiare chi rispetta il mare e la sua biodiversità. La differenza tra questi due scenari passa anche dal nostro carrello della spesa. Non serve essere esperti di biologia marina o esperti ambientali: basta imparare a riconoscere pochi segnali – le certificazioni, la stagionalità, la provenienza, il metodo di cattura – e applicare questi criteri con costanza. Il mare ci ha nutrito per millenni; ora tocca a noi fare in modo che possa continuare a farlo anche per le generazioni future.
