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In Italia cresce il lavoro povero: quasi un occupato su due resta sotto la soglia di povertà. I dati del Rapporto Caritas 2025.
Per decenni il lavoro è stato il principale antidoto alla povertà. Oggi, invece, non garantisce più una vita dignitosa. L’Italia si scopre un Paese di “working poor”: uomini e donne che, pur lavorando regolarmente, non riescono a coprire le spese essenziali. A certificarlo è la Caritas Italiana, che nel suo Rapporto 2025 lancia un allarme: quasi una persona su due tra quelle che si rivolgono ai suoi centri di ascolto ha un impiego. Il lavoro, dunque, non è più sinonimo di emancipazione, ma spesso di sopravvivenza.
La povertà lavorativa si sta trasformando in un’emergenza strutturale, che interroga la politica, l’economia e la società. E la soluzione non può essere ridotta al solo dibattito sul salario minimo, misura importante ma insufficiente a correggere disuguaglianze che affondano le radici nella precarietà, nella stagnazione salariale e nell’illegalità diffusa.
L’indagine Caritas 2025: numeri e storie di un’Italia in difficoltà
Il nuovo Rapporto Caritas 2025 fotografa un Paese dove la povertà non riguarda più solo i disoccupati. Su oltre 280 mila persone che si sono rivolte alle strutture dell’organizzazione, il 48% risulta occupato. In molti casi, si tratta di lavoratori con contratti regolari e persino a tempo pieno, ma con retribuzioni troppo basse per sostenere il costo della vita.
La povertà lavorativa colpisce soprattutto chi è impiegato nei servizi, nel commercio, nella logistica e nell’agricoltura. Settori dove si concentrano contratti precari, part-time involontari e basse qualifiche professionali. Dietro i numeri, ci sono storie concrete. Come quella di Valeria, 36 anni, commessa a Milano, che tramite la Caritas fa sapere: “Lavoro 30 ore a settimana e guadagno meno di 900 euro al mese. Devo scegliere se pagare le bollette o riempire il frigorifero”. Storie come la sua popolano l’Italia intera dove la fatica quotidiana non basta a garantire la sicurezza economica.
Chi sono i nuovi lavoratori poveri
Secondo i dati raccolti da Eurostat e Istat, nel 2024 il 10,2% degli italiani occupati era a rischio povertà, contro una media europea più bassa. L’Italia si colloca in coda all’Unione, più vicina a Paesi come Romania e Bulgaria che ai modelli virtuosi del Nord Europa.
I nuovi poveri non sono una categoria omogenea, ma un insieme di fragilità diverse:
- famiglie monoreddito con figli;
- giovani con lavori intermittenti o stagionali;
- donne costrette al part-time involontario;
- stranieri impiegati in agricoltura e servizi domestici;
- lavoratori autonomi con redditi irregolari.
Questa frammentazione riflette un mercato del lavoro diseguale, dove la crescita occupazionale non si traduce automaticamente in benessere. La precarietà cronica, la scarsa produttività e il divario territoriale aggravano un quadro già compromesso.

Salario minimo: una risposta necessaria ma non sufficiente
In Italia il dibattito sul salario minimo è ormai un terreno di scontro politico. Le opposizioni chiedono una soglia di tutela legale, mentre il governo insiste sulla centralità della contrattazione collettiva. Ma, come sottolinea anche la Caritas, la questione è più complessa. Secondo l’economista Andrea Garnero (OCSE), il salario minimo “è solo un tassello di una strategia più ampia”, che da solo non può compensare i limiti di un sistema produttivo basato su bassa qualità del lavoro e retribuzioni stagnanti.
Tra i rischi più evidenti:
- Livellamento verso il basso: fissare un minimo può spingere molte aziende a considerarlo come tetto anziché come soglia di dignità;
- Scarsa applicazione: nei settori ad alto tasso di irregolarità, la legge rischia di restare lettera morta;
- Cause strutturali non risolte: il salario minimo non affronta la precarietà, la discontinuità contrattuale e la mancanza di welfare integrato.
Come dimostrano le esperienze europee, la misura funziona solo se accompagnata da forti controlli, incentivi all’occupazione stabile e formazione professionale continua.
Il peso dell’illegalità e del lavoro nero
Uno dei principali ostacoli alla lotta contro la povertà lavorativa è la persistenza del lavoro nero e delle pratiche illegali. In Italia, si stima che oltre 3 milioni di persone lavorino in modo irregolare, spesso in condizioni di sfruttamento.
Le forme più diffuse sono:
- retribuzioni inferiori ai minimi contrattuali;
- contratti part-time “fittizi” con ore extra non dichiarate;
- caporalato nel settore agricolo e turistico;
- false partite IVA.
La Caritas rileva che proprio le aree dove il lavoro sommerso è più radicato — in particolare il Mezzogiorno — registrano i tassi più alti di povertà lavorativa. Senza un rafforzamento dell’attività ispettiva e una lotta efficace all’evasione contributiva, qualunque intervento sul fronte salariale rischia di fallire.
Le politiche pubbliche: dal reddito di cittadinanza alle nuove proposte
Negli ultimi anni, l’Italia ha sperimentato strumenti di contrasto alla povertà come il Reddito di cittadinanza, poi abolito. La misura, pur con i suoi limiti, aveva rappresentato un passo avanti nella tutela dei soggetti più fragili. Tuttavia, come sottolineano le ricercatrici Chiara Agostini e Chiara Lodi Rizzini nel rapporto Costruire un futuro più equo, il nostro sistema di welfare è storicamente debole: nato per sostenere il lavoro, non per contrastare la povertà. Il risultato è un approccio che tende a sovrapporre politiche sociali e occupazionali, senza riuscire a proteggere chi lavora ma resta povero.
Le nuove proposte sul tavolo puntano a una visione più integrata:
- Pensione contributiva di garanzia per chi ha carriere discontinue (proposta UIL);
- Rafforzamento dei controlli e lotta al lavoro sommerso;
- In-work benefit, ovvero sussidi per chi ha redditi da lavoro bassi;
- Investimenti nella formazione e nella riqualificazione professionale.
Si tratta di misure complementari, che potrebbero restituire stabilità e dignità a un mercato del lavoro sempre più frammentato.
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Quando il welfare non basta: il ruolo del secondo welfare e del sindacato
In assenza di politiche nazionali incisive, un ruolo decisivo lo stanno giocando le organizzazioni del secondo welfare — cooperative, associazioni, fondazioni — e il mondo sindacale.
La rete Mestieri Lombardia, ad esempio, lavora con persone fragili e migranti per aiutarle a trovare occupazioni stabili e consapevoli. “Le occupazioni precarie le persone le trovano da sole — spiega Katia Salemi del consorzio —. Noi cerchiamo di formarle e orientarle verso lavori dignitosi, con contratti veri”.
Anche i sindacati, sottolinea Daniele Di Nunzio della Fondazione Di Vittorio (CGIL), possono intervenire su più livelli: dalla contrattazione collettiva alla definizione dei salari, fino alla promozione della formazione continua. Ma serve una battaglia culturale contro la precarietà come norma, che abbassa le retribuzioni e alimenta ricatto occupazionale. Il lavoro povero non è più un’anomalia, ma un sintomo profondo di un sistema che ha smarrito la sua funzione di garanzia sociale. Non basta “avere un lavoro” per uscire dalla povertà: serve un lavoro che permetta di vivere, non solo di sopravvivere.
Le indagini Caritas 2025, insieme ai dati Eurostat e Inps, parlano chiaro: un lavoratore su dieci in Italia è a rischio povertà. È il momento di riconoscere che il problema non si risolve con un decreto o un bonus, ma con una strategia complessiva che metta al centro legalità, formazione, contrattazione e welfare. Solo così il lavoro potrà tornare a essere ciò che dovrebbe: il principale strumento di libertà, dignità e giustizia sociale.
