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Roger Waters non ha mai smesso di dire come la pensa. L’ex bassista e leader dei Pink Floyd, da anni impegnato nella causa palestinese e sostenitore del movimento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), ha recentemente partecipato alla sessione conclusiva del Tribunale di Gaza che si sta tenendo a Istanbul.
In un video pubblicato sui social, il musicista britannico ha lanciato un messaggio forte e chiaro: “Dobbiamo continuare ad alzare la voce. Il nostro obiettivo finale deve essere quello di far tornare indietro l’orologio di 100 anni, a prima che la macchia del sionismo annerisse la terra“. Parole che si inseriscono in un contesto fin troppo chiaro, dove il recente cessate il fuoco mediato dall’amministrazione Trump, non solo si sta rivelando l’ennesima bolla si sapone, ma sembra aver creato più interrogativi che risposte sulla strada verso una pace duratura in Medio Oriente.
Cos’è il Tribunale di Gaza e perché è importante
Il Tribunale di Gaza, definito un “tribunale popolare”, rappresenta un’iniziativa della società civile nata un anno fa in risposta a quello che molti osservatori internazionali hanno definito un fallimento delle istituzioni ufficiali nel garantire giustizia e responsabilità. Ispirato al Tribunale Russell degli anni Sessanta – quello istituito da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre per denunciare i crimini statunitensi durante la Guerra del Vietnam – questo organismo non rivendica autorità legale formale ma si pone come voce della coscienza morale globale. La sua Giuria di Coscienza riunisce personalità di diverse nazionalità accomunate dall’impegno per i diritti umani e dalla volontà di documentare la situazione palestinese. Waters, con la sua presenza e le sue dichiarazioni, ha portato visibilità mediatica a un’iniziativa che opera al di fuori dei canali diplomatici tradizionali, puntando sulla mobilitazione dell’opinione pubblica piuttosto che sui meccanismi istituzionali.

La partecipazione di Waters al Tribunale di Gaza non può essere separata dalla sua lunga storia di attivismo politico. Dall’epoca dei Pink Floyd, quando album come “Animals” e “The Wall” contenevano già critiche al potere e alla guerra, fino alla carriera solista, il musicista britannico ha sempre utilizzato la sua arte come strumento di denuncia. Le sue posizioni sulla questione palestinese sono ben note: ha paragonato le politiche israeliane all’apartheid sudafricano, ha esortato altri artisti a non esibirsi in Israele e ha fatto della causa palestinese uno dei temi centrali dei suoi tour recenti, come “Us + Them” del 2017-2018, dove messaggi come “RESIST” e “Stay Human” campeggiavano sul palco insieme a riferimenti espliciti alla situazione mediorientale. Le sue prese di posizione gli sono costate accuse di antisemitismo – che ha sempre respinto con forza, distinguendo tra critica allo Stato di Israele e ostilità verso il popolo ebraico – e la cancellazione di alcuni concerti, ma non hanno mai scalfito la sua determinazione.
Il contesto politico: tra cessate il fuoco e fallimento diplomatico
Il contesto in cui si è svolta la sessione finale del Tribunale appare particolarmente significativo. Poche settimane prima, l’amministrazione Trump aveva mediato un cessate il fuoco a Gaza attraverso quello che è stato definito un “ultimatum” ad Hamas: restituire tutti gli ostaggi israeliani entro 72 ore o affrontare una ripresa delle operazioni militari.
Lo scambio di prigionieri che ne è seguito – tutti gli ostaggi israeliani ancora in vita contro quasi 2000 palestinesi detenuti senza accusa dal 7 ottobre 2023 – ha prodotto scene di giubilo sia in Israele che a Gaza, ma secondo gli organizzatori del Tribunale questo non rappresenta una vera soluzione. Il cessate il fuoco, pur offrendo una tregua dalle bombe, che si sta rivelando anche poco coerente, lascia irrisolte questioni fondamentali: le condizioni umanitarie catastrofiche della popolazione, con oltre il 90% delle strutture residenziali distrutte, la mancanza di acqua potabile e servizi sanitari, e soprattutto l’assenza di un meccanismo di accountability per quanto accaduto negli ultimi due anni.
È proprio su questo punto che il Tribunale di Gaza rivendica la propria rilevanza. Come ha spiegato Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale a Princeton ed ex relatore speciale ONU per i diritti umani nei territori palestinesi, l’iniziativa non vuole sostituirsi ai tribunali formali ma colmare un vuoto lasciato dalla comunità internazionale. La sua funzione è documentare, testimoniare e costruire quello che Falk definisce un “archivio accurato” che contribuisca alla battaglia per la legittimità. Secondo questa prospettiva, i palestinesi avrebbero già vinto la “guerra di legittimità” – quella che determina quale narrazione prevale nell’opinione pubblica mondiale – anche se militarmente più deboli, proprio come accadde al Vietnam contro gli Stati Uniti. Il Tribunale certifica questo risultato simbolico, offrendo una piattaforma per le testimonianze dei sopravvissuti e l’analisi di esperti, con l’obiettivo dichiarato di mantenere viva la pressione morale sui governi e le istituzioni internazionali.
Pace o propaganda? Le critiche alla mediazione americana
La critica più radicale avanzata dal Tribunale riguarda proprio la gestione del processo di pace. Secondo i suoi sostenitori, affidare la mediazione agli stessi attori coinvolti nel conflitto – Stati Uniti e Israele – rappresenta una distorsione della giustizia paragonabile, con un’analogia provocatoria, al permettere ai dirigenti nazisti sopravvissuti di presiedere i negoziati del dopoguerra. Il Piano in 20 punti presentato dall’amministrazione Trump come roadmap per il futuro viene descritto come “prematuro” nella migliore delle ipotesi, mentre le violazioni del cessate il fuoco registrate nei primi giorni – almeno 10 morti palestinesi e il blocco di metà degli aiuti umanitari concordati – sembrerebbero confermare lo scetticismo. Per Waters e per chi condivide la sua visione, parlare di pace mentre una popolazione vive ancora in condizioni di emergenza umanitaria, circondata dalle macerie che contengono i corpi di amici e parenti, significa confondere un rallentamento dell’assalto con la sua conclusione.
La posizione del musicista britannico si inserisce in un dibattito più ampio sul ruolo della società civile quando le istituzioni falliscono. Il Tribunale di Gaza rivendica una “autorità residua” delle persone comuni di agire quando il sistema degli Stati sovrani non rispetta il diritto internazionale. Questa forma di attivismo dal basso, che include anche il movimento BDS di cui Waters è sostenitore, punta a esercitare pressione attraverso la delegittimazione piuttosto che attraverso sanzioni formali. Il fatto che la relatrice speciale ONU Francesca Albanese sia stata personalmente sanzionata dal governo statunitense per i suoi rapporti sulla situazione palestinese viene citato come prova della necessità di canali indipendenti dalle pressioni governative.
“Far tornare indietro l’orologio”: il significato delle parole di Waters
Le dichiarazioni di Waters sulla necessità di “far tornare indietro l’orologio di 100 anni” vanno interpretate nel contesto del suo rifiuto di quello che definisce “colonialismo sionista“. Per il musicista, la questione non riguarda la coesistenza tra due popoli ma la natura stessa del progetto sionista, visto come imposizione coloniale su un territorio già abitato. È una posizione che lo colloca all’estremo dello spettro del dibattito, ben oltre le critiche alle politiche di un governo specifico, e che spiega perché le sue parole continuino a generare controversie. I suoi detrattori vi leggono una negazione del diritto di Israele a esistere, mentre i suoi sostenitori sostengono che stia semplicemente articolando la prospettiva palestinese sulla propria storia.
L’impegno di Waters per la causa palestinese affonda le radici nella sua biografia personale. Figlio di un sottotenente britannico caduto ad Aprilia durante lo sbarco di Anzio nel 1944, il musicista non ha mai conosciuto il padre e questa perdita ha segnato profondamente la sua opera artistica, da “Another Brick in the Wall” a “When the Tigers Broke Free“. La sua avversione alla guerra e la sua identificazione con le vittime dei conflitti sono temi ricorrenti nella sua produzione, dai tempi dei Pink Floyd fino ai tour più recenti. Nel 2014, in occasione del 70° anniversario dello sbarco di Anzio, ha inaugurato ad Aprilia un monumento alla memoria del padre e di tutti i caduti senza sepoltura, ricevendo la cittadinanza onoraria dal comune. Questa esperienza personale sembra alimentare il suo pacifismo radicale e la sua tendenza a schierarsi con chi percepisce come vittima di ingiustizie storiche.

Il Tribunale come archivio della memoria collettiva
Il Tribunale di Gaza, con la sua sessione conclusiva, non pretende di riscrivere gli equilibri geopolitici ma di costruire una memoria alternativa a quella ufficiale. In un’epoca in cui l’informazione è frammentata, la Stampa mainstream è compromessa e le narrazioni competitive si moltiplicano sui social media, iniziative come questa cercano di consolidare una versione degli eventi che possa resistere nel tempo, influenzando le generazioni future. Waters, con la sua fama internazionale e la sua capacità di catalizzare l’attenzione mediatica, funziona come amplificatore di questo messaggio. Che si concordi o meno con le sue posizioni, la sua presenza ha garantito visibilità a un processo che altrimenti sarebbe rimasto confinato agli ambienti dell’attivismo.
Roger Waters, ormai 82enne, continua a definirsi un socialista convinto, elettore del Labour e pacifista radicale. Ha criticato apertamente Margaret Thatcher per la guerra delle Falkland, George Bush e Tony Blair per l’invasione dell’Iraq, e più recentemente ha definito Joe Biden “criminale di guerra” per il sostegno all’Ucraina invece che alla negoziazione. Il suo attivismo non si limita alla causa palestinese ma abbraccia una visione più ampia di opposizione a quelle che considera ingiustizie e guerre imperialiste. La coerenza con cui ha portato avanti queste battaglie per decenni, a costo di controversie e perdite economiche, mostra una convinzione autentica piuttosto che opportunismo. Come ha dichiarato lui stesso citando il padre mai conosciuto: “Voglio essere nella trincea della vita, non al quartier generale. Voglio cambiare il mondo, essere impegnato, in un modo che mio padre forse approverebbe“.
Resta da vedere se questa strategia di delegittimazione dal basso, amplificata da personalità come Waters, potrà effettivamente influenzare le scelte dei governi e delle istituzioni internazionali. Nel frattempo, mentre a Gaza si contano le macerie e la gente continua a morire, il dibattito sulla narrazione storica e sulla giustizia continua, con il Tribunale popolare che si propone come custode di una verità alternativa a quella ufficiale. E Roger Waters, erede ideale di Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre nella tradizione dell’intellettuale engagé, continua a usare la propria voce per amplificare quello che considera il grido inascoltato dei senza potere.
