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Trump blocca la prima tassa globale sul carbonio per le navi con minacce di tariffe. Rinvio di un anno costa caro al pianeta. Ecco cosa significa per tutti noi.
Il mondo delle politiche climatiche ha subito un duro colpo la scorsa settimana a Londra, dove si è consumato quello che molti definiscono un fallimento storico: la prima tassa globale sulle emissioni di carbonio nel settore del trasporto marittimo è stata affossata prima ancora di nascere. Per capire la portata di questa vicenda, dobbiamo fare un passo indietro e comprendere di cosa stiamo parlando. Il trasporto marittimo internazionale rappresenta circa il 3% delle emissioni globali di gas serra, una percentuale che potrebbe sembrare piccola ma che in realtà equivale alle emissioni di un’intera grande nazione industrializzata. Le enormi navi portacontainer, petroliere e mercantili che solcano gli oceani trasportando merci da un continente all’altro funzionano prevalentemente con olio combustibile pesante, un derivato del petrolio estremamente inquinante che rilascia nell’atmosfera anidride carbonica e altri composti nocivi.
All’inizio del 2025, dopo anni di negoziati, le principali nazioni marittime del mondo avevano raggiunto un accordo storico presso l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), l’agenzia delle Nazioni Unite che regola il settore del trasporto via mare. L’accordo prevedeva l’introduzione del cosiddetto “Net-Zero Framework“, un quadro normativo che avrebbe stabilito standard sempre più stringenti per i carburanti utilizzati dalle navi, riducendo progressivamente la quantità di emissioni consentite. Ma l’elemento più rivoluzionario era l’introduzione di un sistema di tariffazione: per ogni tonnellata di gas serra emessa oltre i limiti stabiliti, le compagnie di navigazione avrebbero dovuto pagare una tassa. Si trattava, di fatto, della prima tassa globale sulle emissioni di carbonio mai concepita a livello internazionale, un meccanismo che avrebbe dovuto creare un incentivo economico forte per spingere l’industria marittima a investire in tecnologie più pulite e carburanti alternativi a basse o zero emissioni.
La riunione a Londra doveva essere una semplice formalità: dopo l’accordo di principio raggiunto nei mesi precedenti, i delegati dei paesi membri dovevano procedere all’adozione formale del regolamento, il passo necessario per renderlo operativo. Invece, si è assistito a un clamoroso dietrofront. Sotto la pressione dell’amministrazione del presidente americano Donald Trump, affiancata dall’Arabia Saudita e da una manciata di altri stati, la maggioranza dei paesi ha deciso di rinviare la decisione di un anno intero, rimandando tutto a nuove negoziazioni future. In pratica, il regolamento è stato congelato prima ancora di entrare in vigore. Il voto per il rinvio, richiesto dall’Arabia Saudita, è stato approvato da più della metà delle nazioni presenti, nonostante molte di esse avessero sostenuto entusiasticamente l’accordo solo pochi mesi prima.
Cosa è successo
La strategia di Trump è stata diretta e aggressiva. Alla vigilia della riunione decisiva, il presidente americano ha pubblicato un messaggio sulla sua piattaforma social Truth Social definendo la proposta “una nuova truffa globale sulla tassa verde sulle spedizioni” e dichiarando che gli Stati Uniti non l’avrebbero tollerata. Ma non si è fermato alle parole: l’amministrazione americana ha minacciato esplicitamente ritorsioni commerciali contro i paesi che avessero votato a favore del regolamento, includendo l’imposizione di tariffe doganali, restrizioni sui visti per i cittadini di quei paesi e tasse speciali sulle navi nei porti americani. Una forma di diplomazia coercitiva che ha funzionato: di fronte al rischio di rappresaglie economiche da parte della prima potenza mondiale, molti governi hanno scelto la via del compromesso politico, come lo ha definito amaramente Emma Fenton di Opportunity Green, un’organizzazione britannica impegnata nella lotta ai cambiamenti climatici.

Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha celebrato l’esito come “un’altra grande vittoria” per Trump, sostenendo che gli Stati Uniti hanno impedito “un massiccio aumento delle tasse delle Nazioni Unite sui consumatori americani“. Questa narrativa, però, è contestata dagli esperti del settore, che fanno notare come il costo della tassa sarebbe stato sostenuto principalmente dalle compagnie di navigazione e solo marginalmente redistribuito sui consumatori finali. Paradossalmente, proprio l’International Chamber of Shipping, l’organizzazione che rappresenta oltre l’80% della flotta mercantile mondiale, aveva sostenuto l’adozione del regolamento. Thomas Kazakos, segretario generale della Camera, ha espresso delusione per il rinvio, sottolineando come l’industria abbia bisogno di certezze normative per pianificare gli enormi investimenti necessari alla decarbonizzazione.
Le conseguenze e il contesto più ampio
Le implicazioni di questo fallimento vanno ben oltre il settore marittimo e rivelano dinamiche preoccupanti nella governance globale delle politiche climatiche. Come ha sottolineato Arsenio Dominguez, segretario generale dell’IMO (International Maritime Organization), “la geopolitica mondiale attuale rende più difficile fare progressi su determinati argomenti“. Non è un caso isolato: questa vicenda fa eco al fallimento dei negoziati estivi su un importante trattato internazionale per contrastare l’inquinamento da plastica, anche in quel caso con Stati Uniti e Arabia Saudita in prima linea nell’opposizione a qualsiasi limite vincolante alla produzione. Si delinea un pattern chiaro: due tra i maggiori produttori mondiali di combustibili fossili stanno sistematicamente bloccando iniziative internazionali che potrebbero accelerare la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio.
Per i paesi più vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici, questa è una sconfitta devastante. Ralph Regenvanu, ministro per i cambiamenti climatici di Vanuatu, una piccola nazione insulare del Pacifico che rischia letteralmente di scomparire a causa dell’innalzamento del livello dei mari, ha dichiarato che la mancata adozione del regolamento “segna l’incapacità di questa agenzia delle Nazioni Unite di agire con decisione sui cambiamenti climatici“. Per paesi come Vanuatu, le isole Marshall o le Maldive, non si tratta di ideologia politica o di dibattiti economici astratti: è una questione di sopravvivenza nazionale. Emma Fenton ha usato parole ancora più dure, affermando che “troppi governi hanno scelto il compromesso politico anziché la giustizia climatica e, così facendo, hanno abbandonato i paesi che sopportano il peso maggiore della crisi climatica“.
Ma perché il trasporto marittimo è così importante nella lotta ai cambiamenti climatici? Il punto determinante sta nella longevità delle infrastrutture. Le grandi navi hanno una vita operativa di circa 25 anni, il che significa che le decisioni di investimento prese oggi determineranno le emissioni del settore per il prossimo quarto di secolo. Se le compagnie di navigazione continuano a costruire navi alimentate con combustibili fossili tradizionali, perché manca un chiaro segnale di prezzo sul carbonio che renda economicamente conveniente investire in alternative più pulite, il settore rimarrà bloccato in un modello ad alte emissioni per decenni. L’IMO aveva fissato l’obiettivo ambizioso di raggiungere emissioni nette zero entro il 2050, ma senza strumenti normativi concreti e vincolanti, questo target rischia di rimanere una dichiarazione di intenti priva di sostanza.
Le emissioni del trasporto marittimo, invece di diminuire, sono aumentate negli ultimi dieci anni di pari passo con la crescita del commercio globale. Le alternative tecnologiche esistono già o sono in fase avanzata di sviluppo: carburanti sintetici prodotti con energie rinnovabili, ammoniaca verde, metanolo sostenibile, propulsione elettrica o ibrida per rotte più brevi, e persino il ritorno parziale alla propulsione eolica con moderne vele hi-tech. Ma tutte queste soluzioni richiedono investimenti massicci e hanno costi operativi più elevati rispetto ai combustibili fossili tradizionali. Senza un meccanismo che faccia pagare le esternalità ambientali dell’inquinamento, le compagnie di navigazione non hanno incentivi economici sufficienti per abbandonare i carburanti convenzionali.
Il rinvio di un anno lascia il settore “alla deriva nell’incertezza”, come ha efficacemente espresso Alison Shaw di Transport & Environment, un’organizzazione ambientalista con sede a Bruxelles. Gli armatori che vorrebbero investire in navi più pulite non sanno quali standard dovranno rispettare, quali carburanti saranno privilegiati dalle future normative, e quale sarà il costo del carbonio. Questa incertezza normativa paralizza gli investimenti e favorisce il mantenimento dello status quo inquinante. Anaïs Rios di Seas At Risk ha lanciato un appello urgente: “Ciò che conta ora è che i paesi si ribellano e tornano all’IMO con un voto più forte e convinto, che non possa essere messo a tacere. Il pianeta e il futuro del trasporto marittimo non hanno tempo da perdere”.
La strada verso la COP30, il vertice mondiale sul clima che si terrà a novembre a Belem, in Brasile, si fa ora più difficile e incerta. Questo fallimento all’IMO rischia di creare un precedente negativo e di indebolire la fiducia nella capacità della comunità internazionale di adottare misure concrete ed efficaci contro i cambiamenti climatici. Se le minacce commerciali di una singola nazione, per quanto potente, possono bloccare accordi sostenuti dalla maggioranza dei paesi e dall’industria stessa, il sistema multilaterale di governance climatica mostra tutta la sua fragilità. La domanda che rimane aperta è se, tra un anno, quando le nazioni torneranno a riunirsi per discutere nuovamente della tassa sul carbonio navale, ci sarà la volontà politica e il coraggio di resistere alle pressioni e di mettere finalmente la salute del pianeta davanti agli interessi geopolitici di breve termine.
