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La Calabria, regione simbolo di contraddizioni, continua a essere una delle più povere d’Italia e d’Europa. Ma come è possibile che la patria della ’ndrangheta – una delle organizzazioni criminali più ricche del mondo – resti economicamente al palo?
La risposta parte da un dato di fatto: la ricchezza della ’ndrangheta non è ricchezza calabrese. I miliardi che l’organizzazione criminale muove ogni anno attraverso traffici di droga, riciclaggio, appalti e affari internazionali non restano sul territorio, ma vengono immediatamente spostati altrove. Si calcola che una fetta enorme di quei profitti venga investita nel Nord Italia, in Europa o nei paradisi fiscali, dove le cosche si infiltrano in aziende, società immobiliari e banche, ripulendo il denaro sporco.
In Calabria, invece, restano solo le briciole e le conseguenze: disoccupazione, illegalità diffusa, un tessuto economico fragile e impaurito. La regione non beneficia affatto di quella ricchezza occulta; anzi, ne paga il prezzo più alto in termini di arretratezza e isolamento.
L’economia paralizzata
La presenza radicata della criminalità organizzata ha avuto nel tempo un effetto devastante sullo sviluppo. Molti imprenditori, pur competenti e volenterosi, rinunciano a investire per paura di estorsioni, minacce o controlli distorti. Gli appalti pubblici, spesso pilotati o infiltrati, scoraggiano la concorrenza sana e alimentano un sistema economico chiuso e autoreferenziale.
Le risorse pubbliche – dai fondi europei alle sovvenzioni statali – vengono troppo spesso gestite in modo opaco o clientelare, disperse in microprogetti privi di visione. In questo modo la criminalità non solo arricchisce sé stessa, ma impedisce la crescita di un’economia legale alternativa. È una spirale che soffoca le energie migliori: chi potrebbe innovare o creare lavoro è costretto a emigrare, e chi resta vive in un contesto dove il rischio supera il profitto.
Negli ultimi vent’anni inoltre la Calabria ha perso decine di migliaia di giovani. Ogni anno centinaia di laureati e professionisti lasciano la regione per cercare opportunità altrove. Non si tratta solo di una fuga economica, ma anche culturale: la perdita di capitale umano indebolisce le comunità e frena ogni prospettiva di rinnovamento. Molti paesi dell’entroterra si stanno svuotando, le scuole chiudono, i servizi scompaiono, e le città costiere diventano sempre più dipendenti da un turismo stagionale precario. È un ciclo che si autoalimenta: meno persone, meno lavoro; meno lavoro, più partenze.

Politica e amministrazione: l’altra faccia del problema
A rendere ancora più complesso il quadro è una classe dirigente spesso inefficiente o discontinua. La Calabria è una delle regioni italiane che spende meno fondi europei in proporzione a quelli assegnati: un segnale chiaro di incapacità progettuale e amministrativa.
In molti casi, i fondi destinati allo sviluppo restano inutilizzati, oppure vengono distribuiti in modo poco strategico, senza creare un reale impatto.
La mancanza di infrastrutture moderne – strade, ferrovie, reti digitali – accentua l’isolamento e rende difficile attrarre imprese o turismo di qualità. A tutto questo si aggiunge una burocrazia lenta e spesso percepita come opaca, che scoraggia chi prova a mettersi in gioco. Un altro aspetto paradossale è che la ’ndrangheta, pur avendo origine calabrese, non ha più bisogno della Calabria per prosperare. Oggi è una holding internazionale del crimine, con ramificazioni in Germania, Canada, Australia e Sud America. Gestisce il traffico di cocaina a livello mondiale, ricicla denaro attraverso società legali e si muove nei circuiti finanziari come un qualsiasi gruppo multinazionale.
Ma, come spesso accade, le radici restano nel territorio d’origine. La ’ndrangheta continua a mantenere la propria base identitaria nei piccoli paesi dell’Aspromonte o del Reggino, dove la rete familiare e culturale rimane un pilastro. Tuttavia, quei luoghi non ne traggono vantaggio economico, bensì subiscono l’immobilismo e il controllo sociale che ne derivano.
Una terra di potenziale immenso
Eppure la Calabria non è solo cronaca nera e statistiche negative. È una regione straordinariamente ricca di risorse naturali, culturali e umane. Ha un mare tra i più belli d’Italia, montagne uniche, prodotti agricoli di eccellenza, università che formano giovani di talento, e una nuova generazione di imprenditori che prova a costruire un futuro diverso, spesso in silenzio e controcorrente.
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Negli ultimi anni, alcune realtà del turismo esperienziale, dell’agroalimentare di qualità e dell’innovazione digitale hanno dimostrato che un modello alternativo è possibile, se sostenuto da politiche pubbliche efficaci e da un contesto di legalità stabile. Per invertire la rotta, la Calabria deve prima di tutto riconquistare fiducia nelle proprie forze. La lotta alla ’ndrangheta non è solo compito della magistratura o delle forze dell’ordine: è una battaglia culturale che riguarda la scuola, la società civile, l’informazione e la politica.
Finché la paura e la rassegnazione resteranno più forti del desiderio di cambiamento, la svolta apparirà sempre più lontano. Il paradosso calabrese ci ricorda che la ricchezza illegale non genera sviluppo, e che il vero capitale di una terra è la fiducia dei suoi abitanti, la loro creatività, il desiderio di riscatto. La Calabria può ancora rinascere, ma solo se sceglierà la via più difficile: quella della trasparenza, dell’educazione ad una mentalità libera da soprusi e intimidazioni. Perché finché la mafia sarà la principale forma di “impresa” locale, la povertà continuerà a essere l’unico dividendo distribuito al suo interno.
