Oltre 54mila morti e 31 milioni di tonnellate di CO₂: il conflitto israeliano non sta solo cancellando una popolazione, ma anche il suo ecosistema. Tra suoli sterili, riserve idriche contaminate e un’agricoltura al collasso, Gaza rischia di diventare una terra invivibile.
Non solo genocidio, a Gaza si sta consumando una tragedia parallela e meno visibile, ma non per questo meno distruttiva: un ecocidio. È questo il termine con cui scienziati, attivisti e osservatori internazionali descrivono il disastro ambientale deliberatamente inflitto a Gaza nel corso dell’offensiva militare israeliana.

Una catastrofe che, secondo uno studio pubblicato in anteprima dal Guardian e condotto dal Social Science Research Network, potrebbe generare fino a 31 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, più delle emissioni annuali di interi Paesi come il Libano o l’Estonia.
Cos’è un ecocidio
Il concetto di ecocidio nasce negli anni Settanta, in risposta all’uso massiccio del defoliante “Agente Arancio” da parte degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, per distruggere le foreste e privare i Vietcong di rifugi naturali. Oggi il termine è usato per indicare la distruzione intenzionale e sistematica di ecosistemi naturali, spesso come strategia militare o coloniale. La sua inclusione nel diritto internazionale come crimine perseguibile è ancora oggetto di dibattito, ma casi come quello di Gaza stanno accelerando il processo di riconoscimento giuridico.

Il conflitto in corso, che ha già provocato oltre 54.000 vittime dirette accertate, ha avuto impatti ambientali enormi, molti dei quali destinati a perdurare per decenni. Lo studio citato da The Guardian stima che il solo sforzo bellico – dai bombardamenti alle operazioni logistiche – abbia già prodotto un’enorme quantità di emissioni. Tuttavia, il vero peso in termini climatici arriverà dalla futura ricostruzione della Striscia, oggi ridotta a un cumulo di macerie: si prevede che da sola comporterà 29 milioni di tonnellate di CO₂.
Per dare un’idea delle proporzioni, l’impatto complessivo è paragonabile a tenere attive per un anno 86 centrali elettriche a gas di media potenza. E mentre si guarda alla ricostruzione come speranza per il futuro, è chiaro che il ritorno alla normalità sarà, paradossalmente, una nuova emergenza ambientale.
Gli elementi dell’ecocidio in corso
I ricercatori hanno suddiviso le emissioni in varie categorie:
Trasporti di aiuti umanitari, oggi insufficienti secondo le Nazioni Unite, ma necessari a tenere in vita milioni di civili;
Voli cargo militari, partiti soprattutto da Stati Uniti ed Europa, che riforniscono Israele di armamenti;
Emissioni dei bombardamenti, tra aerei, droni, artiglieria e mezzi corazzati;
Danneggiamento del sistema elettrico di Gaza, in cui la componente solare (un tempo copriva il 25%) è stata gravemente compromessa dai raid israeliani.
Le emissioni imputabili a Hamas e ad altri gruppi armati palestinesi risultano trascurabili, secondo gli autori dello studio, così come quelle derivanti dai bunker sotterranei.
L’acqua che non c’è, la terra che non frutta
Le conseguenze del conflitto non si fermano alle emissioni. Uno studio congiunto condotto da Pengon – Friends of the Earth Palestine e dall’Università di Newcastle denuncia un altro aspetto inquietante: la distruzione delle risorse naturali vitali. Il collasso del sistema idrico e agricolo della Striscia è una delle più gravi catastrofi umanitarie e ambientali del conflitto.
Già a novembre, l’Autorità nazionale palestinese stimava che l’85% della rete idrica fosse distrutto. A questo si aggiunge la salinizzazione delle falde, accelerata dall’uso eccessivo di poche riserve rimaste per nutrire una popolazione concentrata in spazi sempre più ristretti. Il risultato è un’acqua che non si può più bere, nemmeno dopo bollitura.
I bombardamenti hanno inoltre alterato la composizione dei suoli agricoli, rendendoli inadatti alla coltivazione. Secondo la FAO e l’Organizzazione Satellitare delle Nazioni Unite, la devastazione è tale da poter parlare di «collasso del sistema agroalimentare gazawi».
Emergenza sanitaria: dalle macerie alle epidemie
L’ambiente malato si traduce in una crisi sanitaria altrettanto drammatica. I dati raccolti da Pengon e l’Università di Newcastle rivelano una crescita esponenziale di malattie trasmissibili a causa della mancanza d’acqua potabile, delle pozze stagnanti usate per l’approvvigionamento e della proliferazione di discariche a cielo aperto.
La situazione potrebbe esplodere in epidemie incontrollabili. Il rischio non è solo per i gazawi sopravvissuti alle bombe, ma per tutta la regione: l’insalubrità ambientale in un’area densamente popolata e priva di infrastrutture minime può facilmente oltrepassare i confini geopolitici.
L’ecocidio come arma coloniale
La devastazione dell’ambiente palestinese non è un fenomeno nato il 7 ottobre 2023. Da anni vengono documentate pratiche che rispondono a una logica di “pulizia etnica per via ecologica”. Ne è un esempio la sistematica distruzione delle piantagioni di ulivi, spesso secolari, a opera delle autorità israeliane nei territori occupati. Uccidere gli ulivi significa colpire le radici economiche e culturali di un popolo.
Ma Gaza rappresenta un salto di scala. L’ecocidio qui non è più solo un effetto collaterale del conflitto, ma sembra configurarsi come uno strumento deliberato per rendere la Striscia invivibile, in modo irreversibile. Una condizione che comprometterebbe la possibilità di ritorno per milioni di rifugiati e sfollati.
Prospettive internazionali: verso il riconoscimento giuridico?
Il termine ecocidio non è ancora riconosciuto a livello giuridico internazionale come crimine contro l’umanità o di guerra, ma numerose iniziative civili, accademiche e politiche stanno spingendo in questa direzione. L’alleanza Stop Ecocide, fondata da giuristi e attivisti di tutto il mondo, chiede da anni l’inserimento dell’ecocidio nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.
Nel caso di Gaza, i dati scientifici e le testimonianze raccolte da organizzazioni indipendenti e agenzie delle Nazioni Unite costituiscono una base sempre più solida per avviare indagini specifiche.
La guerra in corso a Gaza non è solo un conflitto armato, ma una guerra totale contro l’ambiente e le condizioni minime per la vita. Il genocidio umano e l’ecocidio ambientale avanzano di pari passo, lasciando dietro di sé una terra senza acqua, senza cibo, senza futuro.
Quando il silenzio delle armi arriverà – se arriverà – Gaza non sarà più la stessa. Ricostruire non basterà. Bisognerà bonificare, risanare, rifondare un ecosistema intero. E se la comunità internazionale non riconoscerà questi crimini per ciò che sono – distruzione intenzionale di un ambiente come strumento di guerra – li vedremo ripetersi, in Palestina come altrove. Perché l’ecocidio, come il genocidio, non conosce confini.