Del mondo CSI -Youtube@FinnegansIsAwake-fuorionline
Ferretti trasforma la fine del Novecento in un inno apocalittico alla vita: “Del mondo” è una denuncia e una preghiera insieme.
C’è aria di antico che aleggia in Del mondo, la canzone dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti) pubblicata nel 1994 dentro Ko de mondo. Arrivata 4 anni dopo lo scioglimento dei CCCP, 5 dopo la caduta del muro di Berlino, presenta un Giovanni Lindo Ferretti mistico che parla di odore di sangue fertile e di terra gravida e pulsante e di un’epoca che ha perso il senso di sé. In queste parole Ferretti e Zamboni scolpiscono un poema tragico, una liturgia laica che racconta la decadenza dell’umanità dopo il sogno infranto della Storia. È la fine di un mondo e il principio di un altro: non più giovane, non più forte, ma invecchiato, infetto, incapace di credere alla propria rinascita.
Un canto arcaico, quasi biblico
L’incipit è solenne, ieratico:
“È stato un tempo, il mondo, giovane e forte / odorante di sangue fertile”.
Il ritmo della frase è rituale, quasi da Genesi. C’è la memoria di un’età mitica, un’epoca in cui la vita ribolliva di forza primordiale. Il “sangue fertile” è il simbolo della vitalità, della nascita, della carne che genera. È un’immagine cruda e sacra al tempo stesso, come tutta la poetica di Ferretti: un richiamo alla terra, alla maternità, alla fisicità come atto divino.
L’uso del passato remoto (“è stato un tempo”) segna subito la distanza tra ciò che è stato e ciò che non è più. Il mondo antico, vigoroso e generativo, si oppone al presente “debole e vecchio”, incapace di ricordare la propria forza originaria.

Ferretti non descrive un paesaggio: evoca un mito. Il mondo giovane e fertile è quello in cui la carne e lo spirito coincidono, dove l’umanità vive ancora dentro la natura, non al di sopra di essa. È la Madre Terra che genera, accoglie e protegge. È il grembo della donna — “cavità di donna che crea il mondo” — che diventa metafora dell’universo stesso. In Del mondo, il corpo non è mai semplice materia: è tempio, dimora, sorgente.
“Dimora della carne, riserva di calore / sapore e familiare odore.”
Qui Ferretti canta la carne non come peccato, ma come verità. L’odore, il sapore, il calore: sono i sensi a restituire l’unità perduta tra uomo e mondo. È una visione quasi panteistica, dove il sacro si manifesta nella fisicità, nel contatto, nella vita che si ripete. Ma questo corpo, questa carne, è anche vulnerabile. Contiene “membro d’uomo che s’alza e spinge”, forza generatrice che però “insoddisfatto poi distrugge”. L’immagine è brutale e lucidissima: l’istinto creativo dell’uomo coincide con la sua pulsione distruttiva. L’atto che dà la vita porta in sé il germe della fine. Ferretti non giudica, constata: la violenza è inscritta nell’uomo come sua naturale conseguenza. L’eros diventa thanatos, la creazione si ribalta in distruzione.
Dal mito alla rovina
Il secondo movimento del testo rovescia completamente il quadro:
“Il nostro mondo è adesso debole e vecchio / puzza il sangue versato, è infetto.”
La potenza primordiale è ormai marcia. Quel sangue fertile che un tempo odorava di vita ora “puzza”, si è trasformato in corruzione. Il verbo “puzzare” non è solo fisico, è morale: il degrado del corpo è il degrado dell’anima collettiva. L’immagine dell’infezione è modernissima, quasi profetica — una malattia che contamina tutto, sociale e spirituale insieme. Ferretti qui fotografa il dopo: il mondo post-industriale, post-ideologico, post-tutto. È l’umanità dopo la caduta delle utopie, quella che non crede più né nella rivoluzione né nella salvezza.

Non è un caso che Ko de mondo nasca dopo la dissoluzione dei CCCP e la caduta del muro di Berlino: la fine di un’epoca storica e simbolica. Dove prima c’era fede politica, ora c’è spaesamento; dove c’era il fuoco dell’ideale, resta cenere. Del mondo è, in fondo, un requiem per il Novecento.
La voce di Ferretti in questa canzone è profonda, cavernosa, quasi sacerdotale. Canta come se stesse officiando una messa pagana. Ogni parola pesa, scandita, sacrale. Non c’è melodia tradizionale, ma un ritmo lento, ipnotico, che accompagna il testo come un rito funebre.
I CSI costruiscono intorno a quella voce un paesaggio sonoro rarefatto e terreno al tempo stesso: chitarre che respirano, bassi che pulsano come vene, tastiere che evocano l’eco del vento. Tutto suona antico, materico, quasi contadino. È un suono terrestre, radicato nella fisicità del linguaggio.
Ferretti, in quegli anni, abbandona la rabbia punk dei CCCP e abbraccia una spiritualità inquieta, più vicina alla contemplazione che alla militanza. Del mondo è una tappa di questa metamorfosi: il profeta politico diventa poeta apocalittico.
L’uomo che non sa più custodire
La figura della donna, che nella prima parte del testo veglia sul tempo e “protegge”, è sostituita da un’umanità maschile, “insoddisfatta”, che distrugge. È il passaggio dalla creazione alla dominazione.
In questa opposizione — donna/mondo che genera, uomo/mondo che distrugge — si nasconde una riflessione profondissima sul rapporto tra umanità e natura. Ferretti anticipa, a suo modo, la coscienza ecologica contemporanea: il mondo, visto come organismo vivente, è ferito dall’eccesso di dominio dell’uomo.
“Il nostro mondo è debole e vecchio”: non è solo un’immagine di decadenza fisica, ma un giudizio morale. Il mondo è stanco, consumato dalla sua stessa avidità. L’uomo, incapace di accettare il limite, diventa artefice della propria fine.
Nel cuore della canzone, un’invocazione sorprendente:
“Povertà magnanima, mala ventura / concedi compassione ai figli tuoi.”
Ferretti usa il linguaggio della preghiera, ma lo svuota di religione. La “povertà” diventa una figura quasi divina, madre dolorosa che può concedere compassione. È una poesia che si muove sul confine tra disperazione e pietà, dove l’unica salvezza possibile è la consapevolezza della propria miseria. La “povertà magnanima” è l’accettazione del limite, il ritorno a un’essenzialità che sola può redimere. In un mondo corrotto e infetto, Ferretti trova nella povertà — materiale e spirituale — l’unico gesto di resistenza.
Glorificare la vita, nonostante tutto
Nell’ultima parte del testo, la ripetizione diventa mantra:
“Glorifichi la vita, e gloria sia / glorifichi la vita e gloria è.”
Dopo la denuncia, arriva la liturgia. Il tono non è di speranza, ma di fede ostinata. Ferretti canta la vita non perché sia pura, ma perché esiste, nonostante la rovina. È un inno alla sopravvivenza dell’essere umano dentro la sua stessa decadenza.
Il cerchio si chiude: il mondo era giovane e forte, ora è vecchio e malato, ma la vita — nella sua essenza ciclica — continua a glorificarsi. La carne, ancora una volta, è la protagonista: generatrice e corrotta, sacra e profana, in eterno ritorno. Del mondo non è una canzone da ascoltare distrattamente. È un testo da leggere, da masticare, da lasciar sedimentare. Nelle sue immagini c’è la potenza della poesia primitiva e la lucidità della diagnosi contemporanea. Ferretti e i CSI trasformano il linguaggio della musica in parola rituale, quasi profetica, capace di attraversare la carne e arrivare all’anima.
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La loro è una musica della fine: fine di un mondo, di un’ideologia, di una giovinezza collettiva. Ma in questa fine c’è una scintilla di verità che sopravvive: la consapevolezza che la vita, pur ferita, merita di essere glorificata. In Del mondo, il corpo è memoria, la carne è storia, la voce è preghiera. Ferretti canta il mondo come un organismo che nasce, cresce, si ammala e muore. Ma nel suo canto apocalittico vibra una fede laica nella vita stessa, nel suo continuo rifiorire dalle macerie. È una canzone che unisce il linguaggio biblico a quello contadino, la poesia della Genesi al pessimismo della Storia. E forse proprio per questo, a trent’anni di distanza, Del mondo continua a parlarci: perché siamo ancora qui, dentro lo stesso mondo debole e infetto, ma ancora capaci — come Ferretti — di glorificare la vita, nonostante tutto.
Il Testo
È stato un tempo, il mondo, giovane e forte
Odorante di sangue fertile
Rigoglioso di lotte, moltitudini
Splendeva, pretendeva molto
Famiglie, donne incinte, sfregamenti
Facce, gambe, pance, braccia
Dimora della carne, riserva di calore
Sapore e familiare odore
È cavità di donna che crea il mondo
Veglia sul tempo, lo protegge
Contiene membro d’uomo che s’alza e spinge
Insoddisfatto poi distrugge
Il nostro mondo è adesso debole e vecchio
Puzza il sangue versato, è infetto
È stato un tempo, il mondo, giovane e forte
Odorante di sangue fertile
Dimora della carne, riserva di calore
Sapore e familiare odore
Il nostro mondo è adesso debole e vecchio
Puzza il sangue versato, è infetto
Povertà magnanima, mala ventura
Concedi compassione ai figli tuoi
Glorifichi la vita, e gloria sia
Glorifichi la vita e gloria è
È stato un tempo, il mondo, giovane e forte
Odorante di sangue fertile
Famiglie, donne incinte, sfregamenti
Facce, gambe, pance, braccia
