Vito Servanel, una vita selvatica tra punk, street e Urbex.

Classe 1978 di Lorenzè Alta, rigattiere da sempre, Vito Servanel non sa se definirsi un fotografo o un amante dell’arte underground. Attraverso la macchina fotografica, scatena emozioni e denuncia l’incuria e l’abbandono di edifici che un tempo sono stati nel pieno dello splendore.

Appassionato di storia, di street, di urbex, entra nei luoghi abbandonati, per catturarne con estremo rispetto, i segreti. Attraverso l’obiettivo parla di vite che oggi non ci sono più, ma che sono rimaste sospese nel tempo. Come un esploratore del passato, Vito Servanel va alla ricerca degli edifici abbandonati della provincia di Torino e della Valle d’Aosta, per riportarci un racconto, per far riflettere sul degrado e sul distacco che l’uomo ad un certo punto, mette in atto, nei confronti di cose un tempo riteneva importanti.

Vito Servanel, intervista di Fuori ON

Com’è nata questa passione per la fotografia?


È nata quando avevo 17 anni. La mia prima macchina fotografica è stata analogica. Ho iniziato a fare fotografie così, per passione, in un modo per vedere le cose diversamente. Ho fatto anche un po’ di elaborazione grafica in camera oscura ma poi ho abbandonato. Poi ho ripreso nel 2019, mentre ero in montagna a lavorare in alpeggio in Val di Rhêmes nella Valle d’Aosta.

Perché proprio mentre eri in montagna?

Nella Val di Rhêmes ci sono paesaggi incredibili e dei cambiamenti di cielo che ti fanno rimanere senza parole. Mi trovavo sui 1800 e la mattina, quando mi svegliavo, mi sembrava di toccare le nuvole, perché le avevo sotto di me, come se fosse il mare. Così ho iniziato con il cellulare e per 5 mesi ho fatto una foto al giorno al cielo, sia di mattina che di sera.

C’erano poi le marmotte che mi camminavano vicino senza nessun problema, una sensazione di pace. L’idea è nata da lì. Ad un certo punto il mio scopo era quello di scendere giù e prendere una macchina fotografica per fare sul serio. Così a novembre di quell’anno, ho comprato una Nikon “di strada”, una 3100 molto semplice e mi sono iscritto al primo corso di base con il maestro Virgilio Ardy molto conosciuto per le foto del Carnevale. Dopo il corso di base ho iniziato quello professionale, sempre con lui, e sono partito con molta più pratica.

Dal cielo e dalle marmotte sei finito a fotografare le case abbandonata. Cosa è successo? Cosa è scattato?


E’ scattato durante il corso professionale. Nelle prime uscite ho capito che la strada e il fatto di stare in mezzo alla gente, mi portava in una dimensione diversa: dalla natura quasi incontaminata all’insediamento dell’uomo. E mi è piaciuto molto. La paesaggistica comunque mi piace sempre, io tutto sommato non seguo un unico stile. Mi piace fotografare un po’ di tutto. L’urbex è arrivato proprio in quel periodo, durante questo cambiamento verso il contatto umano. Io essendo un appassionato di storia, mi piace fare urbex anche per scoprire i cambiamenti delle cose.

Cos’è l’ Urbex?


L’urbex in realtà ce l’abbiamo dentro tutti. È un po’ quell’istinto tipico dei bambini di andare a cercare qualcosa di segreto, oltre quella porta. È qualcosa che abbiamo dentro di natura. Da ragazzino avevo proprio una casa abbandonata di fronte alla mia e per me era una sorta di gioco, come per gli altri bambini, entrarci per scoprire le cose. Quando si entrava dentro correvamo in quegli spazi, si giocava con le luci e con le ombre e si credeva di vedere i fantasmi, un fascino che viene da lontano. Quando facevo fotografia analogica fotografavo già le fabbriche e le case abbandonante. Io e miei amici andavamo alla ricerca di uno spazio in cui rifugiarci per stare insieme, per non dare nell’occhio. Eravamo pochi che facevano quel tipo di fotografia. Oggi siamo molto di più.

Cosa vuoi dire attraverso l’Urbex?


L’urbex adesso io lo faccio per uno scopo documentaristico e di denuncia. Essendo anche restauratore di belle arti, ho un occhio di riguardo per le ville abbandonate a se stesse, lasciate alle intemperie del tempo, ma anche verso le fabbriche, luoghi di lavoro un tempo. Il fatto è che l’urbex trasmette molto. Quando entri in luogo abbandonato, non sembra vero, ma se sei particolarmente sensibile, riesci ad avere subito un contatto con la vita che c’è stata lì dentro. Soprattutto in una casa intatta, dove trovi anche a volte la tavola apparecchiata. Per esempio case lasciate di corsa dopo un terremoto. Come quelle in Umbria.

Hai un rito, fai un saluto quando entri in queste case o fabbriche abbandonate?


Si faccio un saluto al luogo. Una sorta di rito di rispetto per chi c’era prima. Io, per esempio, faccio una cosa abbastanza semplice: alzo la macchina fotografica verso l’alto e nomino i quattro elementi: terra, aria e fuoco e acqua. Che si legano molto al mio modo di essere. Anche il mio nome d’arte Servanel, che vuol dire abitante dei boschi, si collega a tutto ciò.

Servanel secondo alcune leggende, è uno dei nomi dei primi uomini che hanno abitato sulla terra. Potrebbe essere anche associato ai folletti e io mi sento anche un po’ un folletto dei boschi. È stata una ricerca partita anche da un pensiero collegato al primitivismo che mi ha spinto a documentarmi su queste cose. Facendo inoltre da tanti anni il rigattiere, avendo a che fare con oggetti d’antiquariato da quando sono nato, oltre che aver studiato come restauratore d’arte, conosco molto bene gli stili e l’età dei mobili e posso dare il periodo in cui certe cose sono stare costruite.

Hai parlato di case e fabbriche abbandonate. Sono due cose diverse nell’ urbex?


Si sono diverse. Una è la vita privata, l’altra è la vita nel lavoro. Quando entri in una casa e cominci a fare una foto è come se sentissi una musica. Per esempio, nella fabbrica è come se sentissi ancora il rumore delle presse o delle catene di montaggio. Nell’ urbex vivi diverse situazioni, dipende dalla casa, dalla villa. È bello fare urbex con altri colleghi.

Per esempio, c’è una violoncellista molto brava, Vera Iseel, che è appassionata di “luoghi forti”, come gli ex carceri o gli ex manicomi. Lei suona all’interno di questi luoghi il violoncello, per le anime che hanno vissuto quegli ambienti. Mi è capitato di fare urbex con lei: il suono che rimbombava dallo strumento mentre mi trovavo all’interno per fotografare, era trascinante come in una danza.

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Parlami dello street


Lo street è un genere particolare. Può essere architettonico o artistico, dipende. A me piacciono entrambi: alcune volte amo fotografare i palazzi, moderni o antichi che siano. Altre volte i murales. Oppure la gente. E’ bello fotografare la gente mentre cammina, mentre è impegnata o semplicemente quando è assorta nei propri pensieri, perché entro in contatto con essa. Ci sono persone che si vogliono proprio fare fotografare, si mettono davanti. Altri ti salutano. Alcune persone invece scappano, dipende. Quando fai street sai che può succedere qualsiasi cosa.

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