Farina, dove si produce in Italia e quali sono le marche | Tutto quello che c’è da sapere

La farina è la regina indiscussa delle nostre tavole: la madre di ogni alimeno che gustiamo, sia sotto forma di pasta, di pane, di dolce, biscotti e quant’altro. La farina è il misuratore dell’ansia sociale: se sugli scaffali dei supermercati manca, c’è qualcosa che non va. Come abbiamo tutti constatato durante la pandemia e successivamente con lo scoppio della guerra in Ucraina. Per non parlare del panico che sta scaturendo l’avvento della farina di grillo. Ma rimaniamo a quella tradizionale, quella con il grano e cerchiamo di capire qual è quella che mangiamo in Italia.

La mappa dorata del grano italiano inizia nella calda Sicilia e si dipana attraverso tutta la penisola fino a toccare le punte più a nord del Paese. La produzione di grano coinvolge l’intero Stivale, e l’Italia può vantare numerosi primati nel settore. È il leader mondiale nella produzione di pasta, con un quarto di quella europea realizzata in Italia. Inoltre, si posiziona al vertice come produttore europeo di grano duro, con 1,9 milioni di tonnellate esportate.

Il Regno di Simeto

Il Regno di Simeto – un territorio che va dalla Puglia alla Sicilia, attraverso Campania, Calabria, Basilicata e Molise, rivela il dominio incontrastato del grano duro. Queste regioni, che un tempo facevano parte del Regno delle Due Sicilie, sono ora il fulcro del Regno del grano duro. La Puglia (390.000 ettari), la Basilicata (175.000 ettari), la Campania (70.000 ettari) e il Molise (60.000 ettari) costituiscono il bacino più importante con 700.000 ettari coltivati a grano duro. La varietà più diffusa è il Simeto, seguito da Ciccio, Duilio, Iride e Gargano.

Anche in Calabria, la varietà predominante è il grano Simeto, con una produzione che si estende soprattutto nel crotonese, coprendo 35.000 ettari. Nell’isola siciliana, le coltivazioni di grano duro prosperano soprattutto tra Palermo, Enna e Caltanissetta, abbracciando un totale di 320.000 ettari. Anche qui, il Simeto è il re indiscusso delle produzioni, seguito da Duilio, Ciccio, Mongibello e Arcangelo.

Il Granaio d’Italia e il grano tenero al Nord

L’Emilia, “Granaio d’Italia” Bologna, Ferrara, Modena e Ravenna formano un quadrilatero d’oro, il cuore pulsante della produzione di grano dell’Emilia-Romagna, rinominata “Granaio d’Italia” per i suoi 80.000 ettari coltivati. Le varietà più diffuse sono Orobel, Neodur e San Carlo.

Un ruolo di rilievo è svolto anche da Lazio (62.000 ettari), Toscana (115.000 ettari) e Sardegna (95.000 ettari), con una produzione complessiva di circa 272.000 ettari di grano duro. A causa delle condizioni atmosferiche particolari di questi territori, si preferisce alternare diverse colture, con Duilio, Orobel, Iride e Colosseo tra le più utilizzate.

Le zone collinari, come Abruzzo (31.000 ettari), Marche (115.000 ettari) e Umbria (13.000 ettari), contribuiscono complessivamente con 159.000 ettari, con la varietà Simeto che troneggia ancora una volta, seguita da Duilio, Ofanto, Svevo e Iride.

Infine, nel Nord Italia, prevale il grano tenero su quello duro. Tra Friuli Venezia Giulia (1.300 ettari), Veneto (2.600 ettari), Lombardia (13.140 ettari) e Piemonte (3.860 ettari), si coltivano circa 21.000 ettari di grano duro, con in particolare le varietà Neodur, Orobel e Normanno.

Capire la classificazione della farina

Decifrare le classificazioni delle farine europee può sembrare complicato, ma possiamo rendere questo processo più accessibile attraverso un esempio pratico. Immaginiamo di sottoporre un campione di farina a un intenso calore di 900°C in un forno. Quello che rimane, sotto forma di cenere, sarà costituito principalmente da sali minerali. I pesi delle ceneri residue, espressi in milligrammi, sono poi utilizzati come chiave di classificazione per le diverse tipologie di farina.

In Germania, Austria e Svizzera, se bruciassimo 100 g di farina, il peso delle ceneri residue in milligrammi rappresenterebbe la classe di farina. Ad esempio, se ottenessimo 550 mg di cenere, avremmo una farina di tipo 550.

I francesi seguono una via simile, ma con un campione di soli 10 g . Quindi, se bruciassimo 10 g e ottenessimo 55 mg di cenere, avremmo un prodotto di tipo T55.

La classificazione italiana, al contrario, richiede una consultazione più dettagliata. Osservando la tabella ufficiale delle farine italiane, vediamo che la farina di grano tenero tipo 00 deve avere meno di 550 mg di cenere per 100 g. Allo stesso modo, quella di tipo 0 dovrebbe essere inferiore a 650 mg, la tipo 1 a meno di 800 mg e la tipo 2 a meno di 950 mg. Per quanto riguarda la farina integrale, ci aspettiamo un intervallo di cenere tra 1300 e 1700 mg per 100 g.

In sintesi, il processo di decodifica coinvolge il peso delle ceneri residue dopo la combustione, e ogni Paese ha il suo approccio distintivo per denominare e classificare le diverse farine.

Ma è tutta farina del nostro sacco?

Il dibattito sulla dicitura “made in” ha scatenato una disputa tra diverse associazioni, tra cui Italmopa, l’Associazione Industriali Mugnai d’Italia, e Coldiretti, rappresentante degli agricoltori. La questione verte sulla presenza di farine “made in Italy” che utilizzano grano importato. Coldiretti solleva la legittima domanda su come possa esistere una definizione del genere quando il grano proviene dall’estero.

Tuttavia, la legge in Italia non obbliga le aziende a indicare l’origine della materia prima sulla confezione della farina. La normativa richiede solo che sia riportato il nome dello stabilimento che ha effettuato l’ultima trasformazione significativa. Italmopa, in un comunicato stampa, afferma che le farine commercializzate in Italia sono considerate “Made in Italy al 100%” anche se contengono grano importato, poiché l’ultima lavorazione avviene sul suolo nazionale.

Di conseguenza, la quasi totalità della farina in Italia è confezionata nel Paese, combinando grano importato con quello locale. È importante notare quindi che una parte significativa del frumento (tenero e duro) utilizzato per produrre il prdotto “made in Italy” non proviene dall’Italia. Le importazioni di grano tenero rappresentano il 60% del fabbisogno, mentre la quota di grano duro importato per i pastifici italiani raggiunge circa il 40%.

La provenienza del grano è variegata, con la maggior parte proveniente da paesi dell’Unione Europea come Francia, Germania e Austria, e in alcuni casi anche dal Canada e dagli Stati Uniti. Tuttavia, il Piano Cerealicolo del Ministero dell’agricoltura sottolinea una debolezza nella qualità del grano italiano, che viene compensata mescolandolo con grano importato, generalmente di qualità migliore.

Farina Italia
Farina Italia – fuorionline.com

La tracciabilità

Maurizio Monti, mugnaio con esperienza e presidente di Antim, a ilfattoalimentare spiega che l’industria molitoria italiana ha bisogno del frumento importato sia per ragioni quantitative, data l’insufficienza della produzione nazionale, che per ragioni qualitative, al fine di soddisfare gli standard richiesti dall’industria. I mugnai giocano un ruolo cruciale nella selezione, mescolanza e macinazione dei grani per ottenere miscele che soddisfino le esigenze dell’industria della pasta, dei dolci e dei prodotti da forno. La loro competenza si estende non solo alla conoscenza dell’origine del prodotto ma anche alla garanzia di massime caratteristiche igienico-sanitarie e tecnologiche del grano.

La tracciabilità dei prodotti come farina e pasta è regolamentata a livello europeo, che richiede la rintracciabilità del prodotto in ogni fase di produzione, ma non impone l’identificazione dell’origine della materia prima. L’industria molitoria è obbligata a risalire al fornitore del grano, ma non è tenuta a conoscere l’agricoltore specifico. Ogni fase della filiera è tenuta a identificare chiaramente quella precedente.

L’indicazione dell’origine del grano

Tuttavia, la decisione di indicare l’origine della materia prima sulla confezione del prodotto finale è a discrezione dell’industria e delle sue scelte commerciali. Al momento, le leggi non richiedono l’indicazione dell’origine del grano sulle confezioni v (anche dellapasta) vendute al supermercato. Alcuni contratti di fornitura del grano prevedono già l’indicazione dell’origine come preferenza, ma questa pratica non è generalizzata.

Il governo italiano sta lavorando a una legge dal 2016 che dovrebbe obbligare l’indicazione dell’origine del grano sulla confezione di pasta e farina venduta al dettaglio. Tuttavia, secondo Monti, la procedura di trasparenza potrebbe complicare il lavoro dal punto di vista meccanico, poiché richiederebbe etichettature e stampe diverse per ogni produzione. Monti sostiene che molte industrie molitorie già forniscono indicazioni sull’origine del grano utilizzato al momento dell’acquisto.

Alcune eccezioni

Attualmente, tra i grandi distributori esaminati, solo Coop, per la sua linea interna, e NaturaSì indicano l’origine del frumento. Coop, ad esempio, offre farine da grano di origine 100% italiana e da altri paesi europei, specificando l’origine sui prodotti. Anche l’industria della pasta ha creato linee dedicate alla materia prima 100% italiana, come Voiello e Granoro.

Alcuni mulini italiani hanno introdotto linee di farina e semola provenienti al 100% da grano italiano. Queste iniziative sono spinte dalla crescente attenzione dei consumatori verso prodotti a filiera corta e biologici. Molte di queste aziende tracciano l’intera filiera, indicando da quali campi provenga il grano che sarà trasformato. Alcuni esempi includono Molino Bigazzi, Molini Pivetti, Molino Rachello, Mulino Padano e Molini Voghera, che collaborano direttamente con agricoltori in diverse regioni italiane per garantire la qualità del grano. Alcuni marchi, come Campi Protetti Pivetti, indicano specificamente le regioni di provenienza del grano.

Inoltre, esistono farine che riportano sulla confezione diciture regionali, come la “Farina Veneta” di Molino Rossetto, che contiene grano veneto al 100%, e prodotti come la farina “0” e “00” di Molino Profili Giuseppe, provenienti dalla Tuscia viterbese. Queste iniziative mirano a soddisfare la crescente domanda di trasparenza e tracciabilità da parte dei consumatori.

100% italiano

Le farine di grano tenero e le semole di grano duro ottenute da grani nazionali tendono a presentare un costo leggermente più elevato rispetto a prodotti non etichettati come “100% grano italiano”. Questo aumento di prezzo può essere attribuito a diversi fattori, tra cui la filiera corta, la macinazione a pietra, la selezione di grani antichi e la certificazione biologica. Inoltre, in alcuni casi, il costo maggiore può derivare dai contratti di filiera che stabiliscono regole precise e prevedono compensi più alti per gli agricoltori.

Alcune aziende, come Molino Rachello, hanno scelto di investire nella certificazione di filiera ISO 22005. Questo standard traccia ogni fase della produzione, gli attori coinvolti, l’origine e la territorialità dei prodotti. La presenza di tale certificazione solleva la questione di quale grado di “Made in Italy” possano vantare questi prodotti. Tuttavia, fino a quando non sarà obbligatorio riportare l’intera filiera sulla confezione, la definizione di “100% Made in Italy” rimarrà soggetta alle strategie commerciali dei produttori o dei distributori, che possono decidere se indicare o meno l’origine della materia prima.

Farina Italia
Farina Italia – fuorionline.com

Il grano ucraino in Italia

L’Italia si posiziona al quarto posto tra i Paesi che hanno beneficiato maggiormente del Black Sea Grain Initiative, accordo dell’ONU che ha facilitato i flussi commerciali dai porti ucraini. Con una percentuale complessiva del 6,3% sul totale delle esportazioni ucraine di prodotti agricoli, l’Italia si colloca dietro Cina (24,3%), Spagna (18,3%) e Turchia (10%). Questi dati, forniti dal Centro Studi Divulga

Nell’arco di un anno, sono stati esportati circa 32,8 milioni di tonnellate di prodotti agricoli dall’Ucraina, principalmente mais (51%, equivalente a 16,8 milioni di tonnellate), grano (27%, pari a 8,9 milioni di tonnellate), e olio di girasole (11%, tra olio e semi, pari a 3,5 milioni di tonnellate). Questi flussi commerciali hanno interessato i tre principali porti dell’accordo: Chornomorsk (38,7% del totale), Yuzhny (31,9%) e Odessa (29,4%).

L’Italia ha ricevuto complessivamente quasi 2,1 milioni di tonnellate di prodotti, di cui il 65,7% costituito da mais (1,3 milioni di tonnellate), il 21,1% (pari a 435mila tonnellate) da grano tenero, e il 5% da olio di girasole (100mila tonnellate). Il Centro Studi Divulga sottolinea l’importanza dell’accordo per l’Italia, poiché ha contribuito a mitigare l’impatto inflazionistico e a garantire un costante approvvigionamento di materie prime essenziali per il Paese, considerando che l’Italia non è autosufficiente. In particolare, il mais è utilizzato per l’alimentazione animale, il grano tenero per la produzione di pane o biscotti, e l’olio di girasole è impiegato dalle industrie italiane.

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Prima dell’inizio del conflitto nel 2021, l’Ucraina rappresentava il primo esportatore mondiale di olio di girasole, coprendo il 46% dell’export mondiale con un terzo della produzione globale di questo prodotto.

È importante sottolineare che, nonostante l’attenzione sull’origine del grano, la qualità dei prodotti sugli scaffali è principalmente legata alla capacità di selezione delle farine effettuata dai mulini. L’origine della materia prima è un aspetto rilevante, ma la competenza nella scelta delle farine svolge un ruolo chiave nella determinazione della qualità del prodotto finale.

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